Da Parigi ad Aleppo. È il viaggio che intraprende Karim – di famiglia algerina ma cresciuto nella capitale francese appena fuori del boulevard périphérique, musulmano non praticante – dopo che Charlotte, la sua compagna, di origine armena, incinta, viene dilaniata in un bar dove sta passando un momento di spensieratezza con le amiche. È un attentato islamista suicida che fa una strage di decine di persone. Sconvolto – ancor più quando scopre che uno dei due terroristi è un vecchio compagno di scuola francese, già cristiano e poi convertitosi all’islam e radicalizzatosi – Karim decide di infiltrarsi nel Daesh e in pochi giorni è già in Siria, passando per il quartiere di Molenbeek, Bruxelles, e aggregandosi strada facendo a compagni e compagne di viaggio (anche una quindicenne, Lila) catturati dalla propaganda dello Stato islamico. Lo spinge una sete di vendetta, forse – il suo obiettivo è incontrare il “reclutatore” –, ma lasciamo al lettore di capire meglio e scoprire la conclusione: alle ultime pagine non si può, effettivamente, abbandonare le letture, prendendo la vicenda il ritmo di un thriller.
Ci sono anche altri personaggi, tra cui, a Parigi, altri uomini e donne del mondo dell’immigrazione, come il bangladese e la moglie somala (Chanchal e Iman, che avevamo già incontrato nel romanzo precedente, Derive). Storie che l’autore fa incrociare attorno al fatale massacro del bistrot appoggiandosi esplicitamente alla teoria dei “sei gradi di separazione”, o «cinque strette di mano», dello scrittore ungherese Frigyes Karinthy (qualcuno ricorderà come ebbe un ritorno di popolarità nel momento del boom di Facebook).
La scrittura è avvincente, e l’autore sparge tra le pagine in modo quasi “invasivo” la sua passione per la pace e la tolleranza, che può essere riassunta in questo ritratto di Karim: «Un musulmano francese, rispettoso del Profeta senza per questo essere un invasato, un uomo del proprio tempo, senza pregiudizi, intenzionato a insegnare ai propri figli innanzitutto la religione della tolleranza, capace di amare indistintamente una musulmana, un’ebrea o una cristiana, di bere una birra ogni tanto, di rispettare le donne e la loro libertà, di fare posto nella sua vita agli omosessuali e a tutti quelli che la pensano in modo diverso, a patto che si esprimano con rispetto e senza aggressività».
Manoukian è stato reporter di guerra, e si sente. È un’annotazione positiva, questa, data l’ambientazione di questo romanzo; meno felice abbiamo trovato il ricorso a digressioni “didascaliche” per illuminare sull’uno o l’altro aspetto della religione islamica, o per far sentire il proprio punto di vista di autore. Per non dire di quello che ci appare come un vero scivolone: accomunare i Vangeli a Corano, Antico Testamento e Torah in una augurabile operazione di ripulitura dai versetti giustificatori della violenza per «evitare un bel po’ di stragi». Encomiabile il “laico” atteggiamento equidistante, ma sarebbe difficile trovare parole confondibili con un incitamento alla violenza nelle pagine dei Vangeli, dove Dio è piuttosto vittima che carnefice (basti ricordare, su questo, l’opera di un altro francese come René Girard).
66thand2nd, 2018, pp. 229, € 16,00
(Pier Maria Mazzola)