Claudio Dalla Zuanna | Mozambico: la Chiesa non è la sacrestia

di Pier Maria Mazzola

L’arcivescovo della seconda città mozambicana, Beira, getta uno sguardo lucido e panoramico sul Paese del dopo-elezioni e sulla Chiesa – “sorvegliata speciale” del potere – osservando anche quel che si muove in campo islamico.

Nella sua visita in Mozambico (4-6 settembre 2019), il Papa è stato accolto benissimo con grande partecipazione della gente; ma le diocesi del Centro-nord sono distanti circa 2000 chilometri dalla capitale, con grosse difficoltà di trasporto, e quindi pochissima gente al di fuori della capitale ha potuto partecipare.

La visita è stata comunque una buona cosa. In particolare, nei suoi messaggi e incontri si è rivolto alle autorità, nell’incontro con i rappresentanti politici del Paese e il corpo diplomatico; alla Chiesa, incontrando vescovi, preti e catechisti; e ai giovani, in un incontro a loro riservato.

Nel discorso rivolto alle autorità ha fatto intendere di conoscere bene la situazione del Paese e ha toccato i punti nevralgici della situazione in Mozambico. Non è stato quindi un discorso particolarmente gradito dagli ambienti governativi.

Nel discorso alla Chiesa – a mio avviso – il Papa è stato più generico, meno legato alla realtà locale. Da notare il fatto che, come vescovi, non abbiamo avuto un incontro col Papa. Probabilmente questo è il frutto della politica e della volontà dei governi che vogliono relazionarsi direttamente con l’autorità massima senza passare attraverso i livelli intermedi – come può essere quello della Conferenza episcopale.

Risultati elettorali contestati

È stata anche una visita in piena campagna elettorale, con le elezioni che si sono tenute circa un mese e mezzo dopo e che sono state contrassegnate da moltissime irregolarità.

Si è trattato di una campagna elettorale segnata dalla violenza, con l’uccisione non solo di alcuni rappresentanti dell’opposizione ma anche di un osservatore locale del processo elettorale. In maniera fortuita, a causa di un incidente stradale in cui sono incorsi, sono stati scoperti gli autori di questo assassinio, vale a dire le forze speciali della polizia, spesso identificate con gli squadroni della morte che operano nel Paese.

Le elezioni hanno sancito l’ampia vittoria delle forze governative: con il 73%, quando, nelle precedenti elezioni, avevano vinto col 52%. È vero che l’opposizione non ha persone preparate, non ha un progetto politico credibile e quindi, in pratica, non c’è alternativa, ma, di fatto, i risultati sono stati viziati da tante irregolarità.

Attacchi politici ai vescovi

Quindici giorni dopo le elezioni, abbiamo avuto l’incontro della Conferenza episcopale e molti si aspettavano una parola dei vescovi sulle elezioni perché il Consiglio costituzionale, che è l’organo che dichiara i risultati ufficiali delle elezioni, aveva appena detto che questi sarebbero stati annunciati solo alla fine dell’anno.

Quando abbiamo iniziato la nostra assemblea, proprio il primo giorno, un settimanale filo-governativo ha pubblicato un vile attacco contro un vescovo di origine brasiliana, la cui diocesi si trova nel Nord del Mozambico, in una regione segnata da un clima di forte tensione e violenza. Si tratta del vescovo di Pemba, Luiz Fernando Lisboa, che, in quel contesto, è l’unico che parla e prende posizione pubblica su quanto avviene nella zona, dato che alcuni giornalisti i quali raccoglievano informazioni sono stati messi in prigione quasi a voler impedire ogni informazione.

Certamente si è trattato di un attacco contro di lui, ma lo abbiamo interpretato anche come un avviso a tutti i vescovi. Non ci siamo certo lasciati intimidire e abbiamo rilasciato un comunicato nel quale dicevamo quello che pensavamo: in un paragrafo si dice che, viste le tante irregolarità, il clima di violenza e altre forme di intimidazione, è comprensibile che l’opposizione abbia difficoltà ad accettare i risultati. Credo che, in questo, il nostro messaggio sia stato chiaro ed esplicito.

Il caso di Pemba

Terminata l’assemblea, abbiamo avuto l’incontro della Conferenza dei vescovi dell’Africa australe, che si è concluso con una messa a cui ha partecipato anche il presidente della repubblica del Mozambico. Prendendo la parola, ha fatto una specie di storia della Chiesa in Mozambico, elogiando quella parte della Chiesa che ha sostenuto il cammino verso l’indipendenza e mettendo in rilievo come si sia trattato più dell’eccezione che della norma. Ha ricordato che il Papa ha raccomandato alla Chiesa cattolica di essere dalla parte della soluzione e non dei problemi.

Proseguendo, ha fatto riferimento a una lettera che il Vaticano avrebbe indirizzato ai vescovi del Paese in cui si dice che giustamente i vescovi sono preoccupati della catechesi, della famiglia, ed è questo – ha affermato il presidente – che vogliamo che facciano i vescovi: che si preoccupino dei giovani, della catechesi… lasciando intendere che è bene che non si occupino di altro.

La settimana seguente il settimanale filo-governativo ha pubblicato un altro articolo nel quale ha rincarato la dose contro il vescovo di Pemba, questa volta mettendo però nel mirino più la sua linea pastorale. Chiaramente questo secondo pezzo ha usato il dossier che i servizi segreti hanno su di lui.

L’opinione pubblica filo-governativa ha messo nel mirino il vescovo di Pemba per due ragioni. In primo luogo, perché è una persona molto retta, esplicita nel parlare, e ricopre anche il ruolo di presidente della Commissione giustizia e pace. Varie volte questa Commissione ha preso posizione ed è intervenuta pubblicamente, ad esempio sui debiti nascosti che il governo ha accumulato.

L’altro aspetto è legato al luogo in cui questo vescovo esercita il suo ministero: si tratta di una provincia in cui vi è una miscela esplosiva di povertà e di ricchezza, con enormi giacimenti di materie pregiate, dove poche persone legate al potere politico hanno di fatto in mano la gestione della regione. Davanti a questa realtà, quando il governo vuole far passare il messaggio che tutto va bene, il vescovo di Pemba ha detto come effettivamente stanno le cose e le ha fatte conoscere anche all’estero.

La lettera pastorale

Dopo la visita del Papa, abbiamo cercato di recuperare le parti più importanti del suo messaggio, ricordando che la sua visita è stata un bene per il Paese, e abbiamo steso una lettera pastorale dal titolo Il coraggio pastorale e l’impegno missionario.

In questa lettera abbiamo ripreso i tre blocchi della parola alla società, alla Chiesa e ai giovani; facendo un riassunto composto da citazioni degli interventi del Papa, a cui abbiamo aggiunto quelle che, per noi, sono le forze e le debolezze del Mozambico, citando fra queste ultime gli squadroni della morte, le elezioni non trasparenti e altri aspetti problematici. Infine, abbiamo dato alcune indicazioni su quali frutti devono conseguire a questa visita del Papa.

La nostra idea è che questa lettera possa contribuire a progettare un cammino aperto al futuro indicando, come Chiesa, dove dobbiamo convogliare le nostre forze. Quanto alla dimensione sociale, si tratta di coltivare una cultura di pace; quanto alla dimensione ecclesiale, abbiamo sottolineato soprattutto la necessità di portare la fede nella vita quotidiana; infatti, notiamo nella nostra gente una separazione fra celebrazione domenicale e vita professionale.

Mi soffermo un attimo su questa dimensione. Di Francesco abbiamo ripreso in particolare la sottolineatura che ci invita ad essere una Chiesa della visitazione, una Chiesa che va verso l’altro; questo è particolarmente importante per noi in Mozambico perché, in qualche maniera, non ci si è ancora liberati dell’idea della Chiesa cattolica come la grande Chiesa in Mozambico. Nella testa di molti sacerdoti vi è l’idea che noi siamo la Chiesa, ma, se guardo alla mia diocesi di Beira, i cattolici sono solo il 10% della popolazione; il che vuol dire che nove persone su dieci non verranno mai alla Chiesa a cercare risposte, quindi non basta stare in parrocchia ma bisogna muoversi verso di loro andando a cercarle.

I malanni a cui Francesco fa riferimento, come il clericalismo, il guardare a sé stessi e l’autoreferenzialità, valgono pure per noi, anche se siamo una Chiesa giovane.

I giovani e il laicato

La potenzialità più grande della Chiesa mozambicana è la gioventù, la presenza dei giovani – il 55% della popolazione complessiva ha infatti meno di vent’anni, quindi le nostre chiese sono piene di giovani. D’altra parte, è vero che la maggior parte dei giovani abbandona la comunità cristiana dopo i sacramenti dell’iniziazione.

Un’altra potenzialità, soprattutto in alcune diocesi del Paese, è l’esperienza di ministerialità laicale vissuta negli anni passati. In molte comunità il prete arriva una volta all’anno o poco più, quindi in esse tutta la vita cristiana va avanti basandosi sui laici. D’altra parte, dove questo cammino non è stato fatto anche per motivi storici e contingenti – nella mia diocesi, dopo il Concilio, molti missionari furono espulsi dal governo portoghese da un giorno all’altro e, nel 1975, sono stati nazionalizzati i beni posseduti dalla Chiesa e dalle missioni – è scomparso anche il riferimento fisico al cristianesimo. A questo si sono aggiunti la guerra civile e l’isolamento e quindi i cristiani di queste regioni non avevano più nessun riferimento. In altre regioni, invece, come in Zambesia, questo cammino di comunità ministeriali, che era già iniziato prima della nazionalizzazione, è diventato l’unica forma per progredire come comunità cristiana.

Qui il clero, rimasto numeroso, e anche le religiose, non avendo più scuole e ospedali da gestire, si sono impegnati tutti nella formazione: traduzione, preparazione di sussidi, edificazione delle comunità…

In una battuta, l’esperienza del ruolo dei laici che raccogliamo dalla nostra storia di Chiesa rappresenta indubbiamente una risorsa notevole per il nostro futuro. In merito, è però importante avere una profonda consapevolezza della condizione di povertà della formazione: io ho molte comunità dell’interno della diocesi in cui non c’è una sola persona che sappia leggere. Quindi sorge la domanda su come fare una celebrazione.

Sto insistendo sul ruolo della comunità: l’esperienza cristiana passa attraverso la vita comunitaria: non solo quindi nella relazione con Dio ma anche nella relazione con le persone. Quindi è essenziale, per uno che si dice cristiano, dare forma a una comunità. Per questo chiedo la costruzione di una cappella anche di paglia, di un luogo di incontro, e di fare una celebrazione domenicale insieme.

Nessuno sa leggere le letture della domenica? Non è un motivo per non partecipare alla celebrazione domenicale: pregate insieme, fate dei canti, l’importante è ritrovarsi insieme come comunità. Queste sono però soluzioni di emergenza, la povertà della formazione e l’altissimo tasso di analfabetismo sono un limite anche per la Chiesa.

Regole o discernimento

Quando parliamo di una Chiesa giovane, questo vale anche per i preti: nella mia diocesi ci sono 54 preti diocesani e solo quattro di essi hanno compiuto cinquant’anni. Questa è una cosa bella, ma implica anche fragilità, in primo luogo la mancanza di modelli.

Cosa vuol dire essere prete diocesano oggi in Mozambico? Quale deve essere la giusta relazione con la famiglia? Oppure ci interroghiamo sull’autorità e su come gestirla con la comunità e nella comunità?

Le risposte a queste domande i giovani preti le devono trovare da soli, anche perché eventuali modelli a disposizione sono quelli del passato.

Un aspetto su cui papa Francesco ci spiazza come Chiesa mozambicana è il discorso del discernimento. In Africa la gente vuole avere le idee chiare, sì o no, senza via di mezzo. Anche la vita personale è un po’ a compartimenti stagni: una cosa è quando si è ragazzi; un’altra quando si è sposati; un’altra ancora quando da sposati si ha un figlio, e così via. Davanti a questa mentalità, il tempo del discernimento appare come qualcosa che rende lecito tutto, perché non dice subito sì o no. C’è quindi una certa rigidità di giudizio e di valutazione che ci costringe a regolare tutto con estrema chiarezza e precisione.

I preti in episcopio

Il seminario propedeutico è presente nelle singole diocesi, ma poi la formazione continua centralizzata nella capitale con tre anni di filosofia e quattro anni di teologia. Generalmente, finita la teologia, dopo poco si viene ordinati diaconi nella propria diocesi.

Per quanto riguarda noi a Beira, abbiamo inserito un anno di esperienza pastorale nelle comunità della diocesi e, durante questo anno, i seminaristi una volta ogni due mesi vengono una settimana a casa da me e viviamo insieme. Si fanno incontri, colloqui personali, invito qualcuno a parlare, si prega insieme, si lavano i piatti insieme (per loro, vedere il vescovo che lava i piatti è qualcosa che li spiazza non poco).

Sono cinque-sei settimane in un anno grazie alle quali si crea una certa conoscenza, poi cerco di continuare, sia pure con un ritmo minore, anche con i preti nei primi anni del loro ministero, che trascorrono una/due settimane dell’anno in casa con me e viviamo insieme. Questo può aiutare a conoscersi e ad accettarsi vicendevolmente; ho l’impressione che si stia creando un certo senso di identità, di appartenenza e di essere gruppo/presbiterio. Cose che i preti più vecchi (45-50 anni) non hanno assimilato né durante la loro formazione né durante la loro vita sacerdotale e per questo sono scettici verso questa condivisione di vita tra il vescovo e i suoi preti. Ho invitato anche loro a passare con me una settimana e hanno visto cosa vuol dire celebrare con regolarità la Liturgia delle ore, celebrare messa tutti i giorni, condividere, raccontarsi…

Lavorare insieme può diventare un modo per far fronte ad un’altra grave difficoltà che abbiamo, ossia il sostentamento del clero, perché la maggior parte delle diocesi non hanno alcun mezzo per provvedervi e quindi molti sacerdoti entrano nell’insegnamento scolastico pubblico. Questo crea un grosso problema quando si tratta di spostare un prete da una parrocchia a un’altra, perché ogni volta il vescovo deve chiedere il permesso al ministero dell’Educazione.

Nella nostra diocesi abbiamo il vantaggio di possedere alcuni grandi immobili che sono stati dati in affitto all’Università Cattolica. Con questa entrata riusciamo a dare un sussidio mensile ai preti (circa 90-100 euro). Su questa base ho potuto dire ai miei preti che il fare scuola, pur essendo una bella attività, non è la ragione per cui sono stati ordinati e, quindi, se decidono di inserirsi nella scuola pubblica, non ricevono il sussidio della diocesi. In questo momento non ho nessun prete vincolato dalla scuola e questo è un vantaggio per la diocesi.

Studiare perché?

Il prete che vuole andare a tutti i costi in Europa per studiare è una realtà del passato. L’abitudine è che, terminata la teologia, i libri vengano messi da parte. A volte, la richiesta di andare a studiare in Europa sembra legata al desiderio di trovare forme di sostegno economico per il futuro o sotto forma di qualche benefattore o, una volta tornati in diocesi, per avere accesso all’insegnamento universitario che garantisce un apprezzato sostegno economico.

Qualche sacerdote mi chiede quali sono i criteri per decidere che qualcuno possa proseguire gli studi all’estero. Su questo punto guardo a due cose: primo, che una persona abbia le capacità per studiare; secondo, che sia un buon prete che si dedica alla pastorale, perché altrimenti al suo rientro difficilmente sarà disponibile per un progetto diocesano. Se coesistono questi due aspetti, è mio desiderio fare di tutto per mandare a studiare all’estero i miei preti.

Alcuni sacerdoti preferiscono perfezionare gli studi rimanendo in patria, dal momento che in Mozambico in questo momento vi sono 58 tra università e istituti superiori in grado di rilasciare titoli accademici e, in alcune di queste realtà culturali, non si richiede molto sforzo per ottenere un titolo di studio. Con una licenza dell’università si può andare a insegnare nelle scuole quello che si insegnava prima, ma si ha diritto ad uno stipendio più alto.

Il doppio islam

In Mozambico c’è una questione islamica, ed è solo all’inizio. L’islam è arrivato molto prima dei portoghesi: nella zona più a sud della mia diocesi c’è una fortezza costruita dai musulmani come punto di approdo per le carovane di schiavi, i beni commerciali e così via. Nel 1500 i portoghesi hanno conquistato questa fortezza e le sue pietre sono state usate per costruire la cattedrale di Beira.

Lungo la costa, soprattutto verso il nord, c’è sempre stata una considerevole presenza musulmana che, in questa regione, costituisce la maggioranza della popolazione.

All’inizio del ’900, come in molti Paesi dell’Africa, sono entrati numerosi commercianti, principalmente dal Pakistan e dall’India, tanto che oggi il settore commercio è quasi un monopolio in mano asiatica. La maggior parte di questi commercianti è di religione musulmana, e la convivenza con i locali è sempre stata pacifica, anche se tra i musulmani di origine asiatica, conoscitori dell’arabo e del Corano, e quelli di origine africana, che non avevano accesso diretto al testo sacro, si nota una certa separazione, oltre a un atteggiamento di superiorità degli uni sugli altri.

Una quindicina di anni fa l’Arabia Saudita ha iniziato a portare giovani coppie mozambicane in Sudan o in Arabia Saudita per farle studiare. Stanno via in media tre-quattro anni e, quando rientrano, sono del tutto indottrinati. Questi giovani sono mozambicani, si vestono sempre con la tunica e non solo quando vanno alla moschea, non salutano persone di altre confessioni o religioni, e le ragazze sono spesso totalmente velate. Si stanno costruendo scuole coraniche e numerose moschee. Sono edifici belli, posti in luoghi di visibilità e a volte vicino alla chiesa. La mattina presto i muezzin invitano alla preghiera con gli altoparlanti, tanto che sembra di essere in una città araba.

Questa arabizzazione dell’islam mozambicano, quando giungerà a numeri più consistenti, porterà ad un punto in cui il dialogo sarà molto difficile. Ora come ora non si vivono particolari tensioni, ma in futuro la situazione diventerà più complessa e critica.

In questo momento in Mozambico sembrano esserci due manifestazioni dell’islam: quello di provenienza asiatica, che non ostenta particolari segni esterni (se non talvolta quando ci si reca alla moschea); e quello dei mozambicani arabizzati con atteggiamenti più radicali e azioni di proselitismo che sempre più spesso fa ricorso al matrimonio con ragazze cattoliche come forma di conversione. Il tutto sembra rispondere a un piano ben preciso per islamizzare il Mozambico, così come un po’ tutta l’Africa.

Quanto sta succedendo nel Nord del Paese, con violenti scontri e molti massacri, non sembra rientrare in questo piano, anche se il fondamentalismo islamico a volte rivendica alcune azioni e potrebbe arrivare a cavalcare la situazione. Quella è un’area di forte presenza musulmana e la maggior parte delle vittime sono musulmani poveri, costretti a spostarsi perché le compagnie di estrazione del gas devono impiantare le loro installazioni e garantirsi una sicurezza totale intorno a esse. I personaggi che stanno dietro a queste violenze probabilmente sono diversi e sono mossi quasi esclusivamente da interessi economici e non da motivazioni religiose.

Testo raccolto da SettimanaNews

Claudio Dalla Zuanna, 61 anni, vicentino nato in Argentina, è dal 2012 arcivescovo di Beira in Mozambico, Paese in cui si è recato la prima volta, come missionario dehoniano, nel 1984. In occasione del ciclone Idai abbattutosi sul Paese nel marzo dell’ano scorso, e che aveva particolarmente infierito sul territorio della sua arcidiocesi, quella di mons. Dalla Zuanna è stata una delle voci di testimonianza risuonate in Italia.


Immagine di apertura: Nick Youngson CC BY-SA 3.0 Alpha Stock Images

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