Il primo contagiato dal coronavirus, in Nigeria, è un italiano proveniente da Milano. Si è spostato per quasi due giorni nel Paese prima di essere isolato. Da Lagos è arrivato ad Abeokuta, nello stato di Ogun, in visita a un cementificio nella zona di Ewekoro. Ha alloggiato presso la guest house dell’azienda, prima di risalire in auto e tornare a Lagos. Qui si è sentito male ed è stato portato immediatamente in ospedale. Si è pensato, inizialmente a un attacco di malaria. Una volta esclusa quella malattia e dal momento che arrivava da Milano, sono scattati i protocolli dell’OMS, con immediato isolamento, tampone e tutti i criteri di sicurezza da adottare in questa situazione.
Quello che i media italiani chiamerebbero “paziente zero”, oggi risulta clinicamente stabile, senza sintomi gravi, ricoverato all’ospedale di Yaba, Lagos, nel reparto di malattie infettive. Conseguenze? Nella Città di Abeokuta sono state identificate e messe in quarantena, anche se non presentano alcun sintomo, 28 persone che erano entrate in contatto con lui. Si continuano a ricostruire i suoi spostamenti e a rintracciare tutte le persone che potrebbero avere avuto un contatto con lui durante il viaggio e nel corso delle 48 ore trascorse a Lagos e Abeokuta. La Nigeria si dichiara pronta a mettere in campo tutte le misure possibili per il contenimento del contagio, anche se al momento non sono stati presi particolari provvedimenti. I consigli per la popolazione sono quelli emessi dall’OMS, validi per il resto del mondo.
Fin qui la cronaca. Adesso passiamo ad alcune riflessioni da parte di chi scrive, ossia una signora italo-nigeriana, una persona che ha consuetudine con i due paesi.
In Italia, per intere settimane, abbiamo letto della grande preoccupazione di medici, virologi, infettivologi, professori e della comunità scientifica rispetto a quello che sarebbe potuto accadere in Africa una volta che il virus avesse fatto la sua comparsa e l’Africa è stata considerata da subito la “sorvegliata speciale”, tanto da indurre qualcuno a suggerire di bloccare, per precauzione, i voli dal continente verso il resto del mondo (il viceversa non è stato preseo in considerazione).
Tutto questo avveniva quando non era stato accertato un solo – dico un solo caso – di contagio, mentre in Italia eravamo a livelli già alti. Si continuava a asserire che sarebbe stata solo una questione di tempo. E che l’Africa era impreparata ad affrontare l’epidemia di coronavirus.
Il direttore generale dell’OMS, Tedros Ghebreyesus, ha dichiarato che “Il virus ha un potenziale pandemico”, il che significa che ha potente capacità di diffusione, ma non ci dice nulla sulla gravità della malattia. Eppure ci troviamo, improvvisamente, orfani di quella razionalità che ci dovrebbe caratterizzare, per contenere, questa situazione. Ci culliamo in atteggiamenti tra il panico e una strafottente sottovalutazione del problema.
Ogni ciclo storico è stato segnato da una propria forma di globalizzazione, proporzionata ai confini del tempo. Nel tempo che stiamo vivendo gli ultimi confini sembrano essere stati annullati dai socialnetwork e ci misuriamo con una infodemia incontenibile, un’epidemia di informazioni distorte, confuse ed eccessive che rendono più difficile la soluzione di ogni problema, mietendo vittime soprattutto tra le persone culturalmente più fragili. Le informazioni false, per enne ragioni, si diffondono più velocemente e più in profondità di quelle vere. La paura stessa è contagiosa tanto quanto la paura del contagio, con il suo contorno di comportamenti irrazionali. La storia ci insegna come i batteri ed i virus abbiano sempre viaggiato con le persone, con le navi e si sono diffuse con le merci e gli scambi. Gli europei hanno conquistato terre e mondi nuovi, dando inizio al più grande genocidio della storia dell’umanità: intere popolazioni indigene sono state decimate a suon di malattie infettive. A loro volta, gli europei sono stati contagiati dagli indigeni con altre patologie per loro nuove. L’Africa Occidentale, per esempio, è stata considerata a lungo “la tomba dell’uomo bianco”. Si pensava che i bianchi, per “motivi di razza”, non potessero sopravvivere al clima africano e che i neri fossero invece geneticamente adatti. In realtà il punto debole degli europei non aveva nulla a che fare con la “razza” bensì con una mancanza di immunizzazione, in particolare rispetto agli agenti di febbre gialla e malaria, immunizzazione che molti africani avevano acquisito nell’infanzia.
Oggi, nell’era dell’informazione “virale”, il fenomeno andrebbe re-interpretato in tutta la sua complessità e globalità. E io provo a guardarlo dalla mia prosepttiva italo-nigeriana e direi anche un bel po’ veneta. Perché i regionalismi in Italia non sono solo espressioni geografiche. Da nigeriana, coltivo una certa idea di fatalità, unita alla consapevolezza che se tutti gli strumenti messi in dotazione dalla Federal Ministry of Health (con il sostegno ed il benestare dell’OMS) nell’affrontare queste problematiche, il livello di preparazione del personale medico e i controlli a tappeto effettuali in aeroporti, porti e frontiere non fossero sufficienti ad arginare l’epidemia, significa che è il “volere del cielo” (come sono soliti dire i nigeriani, di qualsiasi estrazione religiosa siano). C’è una sorta di incredibile maturità nell’affrontare l’emergenza mista ad una capacità di sdrammatizzare. Probabilmente il motivo risiede nel fatto che la speranza è uno dei pilastri di qualsiasi rapporto di vita ed è quella che infonde fiducia nella soluzione di qualsiasi problema. Non ho poi alcun dubbio sulle dichiarazioni del Dr. Chikwe Ihekweazu, un epidemiologo che stimo molto e che è stato nominato Amministratore delegato del Centro per il controllo delle malattie infettive nigeriano (NCDC – Nigeria Centre for Disease Control). Il Dr. Chikwe, spiega con una chiarezza esemplare, quanto sia ancora sconosciuto questo tipo di virus, ma che, unitamente al gruppo da lui appena istituito, controlla giornalmente la situazione in tutta la nazione. Ricorda come la Nigeria abbia affrontato egregiamente, nel 2014, l’emergenza ebola, contenendo la diffusione della febbre emorragica dopo che un uomo infetto, proveniente dalla Liberia, atterrò a Lagos, dando quindi prova di una certa dimestichezza nella gestione dei focolai epidemici.
Come italiana, debbo, invece, riscontrare come l’ingiustificato panico, da un lato, l’irresponsabile sottovalutazione del problema, dall’altro, la sinofobia, la paranoia razzista (in senso stretto) e le discriminazioni (in senso lato), abbiano preso il soppravvento ed occupato la scena sociale. Un paese che, sotto questa luce, si scopre vulnerabile e si spacca tra un Nord infetto ed un Sud apparentemente libero, ma con tanta voglia di “vendetta”. Un paese che, di fronte all’incertezza va in tilt, dimenticando che la vita è un viaggio nell’incertezza; che si dondola tra polemiche rabbiose e ricerca di capri espiatori e untori, ossessionata dalla necesità di trovare un colpevole; che sfoga sui social la propria frustrazione e la mancanza di autocontrollo; che non sa decidere se sia più da vigliacchi tenere i porti chiusi per arginare l’epidemia o lasciarli aperti facendosi tacciare da assassini. Un paese ossessionato, chiuso in se stesso, ignaro del fatto che, nel tempo, vicino e lontano, si sono verificate epidemie di gran lunga più gravi e completamente disinteressato al fatto che migliaia di persone, ogni giorno, muoiono – anche sul suolo italico – a causa di altre malattie infettive.
Infine, come veneta, prostrata nel cuore dal virus, mi sento ferita per come la mia regione sia in questo momento bistrattata e trascinata in un vortice di disprezzo, nonostante i meriti del passato e la compostezza e la dignità con cui nelle zone rosse e gialle si stia affrontando l’emegenza.
E’ fuori discussione, però, come l’orgoglio di superare il problema sia più forte di qualsiasi rancore a noi indirizzata. Debbo inoltre riconoscere che la macchina operativa sanitaria è davvero perfetta. Un’organizzazione decisamente rapida e di pronto intervento che non ha pari. Gli effetti collaterali dei decreti emanati, con il conseguente isolamento e quarantena a cui siamo stati costretti, ha anche evidenziato un aspetto positivo. La riscoperta di una socialità dimenticata nel tempo, a causa del quotidiano tormento alla ricerca del benessere; la riscoperta della condivisione, della solidarietà e della voglia di stare insieme. Paradossalmente, nei paeselli, tra i quali anche il mio, oltre a qualche sporadico “panico da supermercato” – scaffali sì vuoti, ma subito riempiti , l’isolamento diviene fattore di aggregazione, unisce le persone in un gruppo dove si vivono le stesse paure e speranze, ma, contemporaneamente, porta a collaborare insieme. Tutto ciò mi dà la sensazione di essere ri-proiettata in una dimensione più umana e più in sintonia con il mio ciclo naturale e vitale.
(Luisa Wizzy Casagrande)
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