Così Città del Capo ha battuto la siccità

di AFRICA
Così Città del Capo ha battuto la siccità

Limitatori di consumi, docce temporizzate, riutilizzo delle acque, impianti di desalinizzazione. E sistemi innovativi per catturare l’umidità nell’aria. Così la metropoli sudafricana è riuscita (con non pochi sacrifici) a ridurre del 60% l’utilizzo dell’acqua.

Un’anziana signora siede sul marciapiede davanti casa e osserva sconsolata una sorta di tombino blu: «Anche oggi senz’acqua – sospira –. Colpa di questo dannato marchingegno». L’accusato è un limitatore dei consumi dell’acqua, installato di recente dalla municipalità di Città del Capo in tutte le abitazioni dei sobborghi popolari (quelle, per intenderci, che stanno tra le baracche delle township e le ville blindate dei quartieri dei bianchi): collegato all’acquedotto tramite un contatore, blocca la fornitura al superamento del volume previsto dalle restrizioni (in questo momento, 70 litri a testa al giorno). Risultato: molte famiglie rimangono spesso coi rubinetti asciutti nel primo pomeriggio fino al mattino seguente.

«Qui si taglia senza preavviso una risorsa vitale – si lamenta Zama Timbela, attivista del Progressive Youth Movement –. Nelle zone residenziali, invece, se un benestante supera la soglia paga una multa, ma continua ad avere l’acqua». La scarsità di precipitazioni e l’esaurimento delle riserve idriche hanno provocato nel 2018 l’emergenza acqua nella Provincia del Capo Occidentale, in particolare nell’area metropolitana di Città del Capo, 4 milioni di abitanti, costringendo le autorità a inedite misure restrittive.

I giorni dell’emergenza

Il Theewaterskloof, il maggiore dei bacini artificiali che riforniscono la città, era sceso a un decimo della sua capienza, pari a 480 miliardi di litri. Gli studiosi avevano previsto un imminente Day Zero, il giorno in cui non sarebbe più uscita acqua da nessun rubinetto della città. Il livello di massima allerta è scattato in estate. Le strade sono state tappezzate di manifesti che esortavano la popolazione a non sprecare una sola goccia. Niente piscine, né giardini irrigati. Consumo massimo consentito: 50 litri d’acqua a testa al giorno (in Italia il consumo quotidiano pro capite è di circa 250).

Il panico ha spinto la gente a svuotare gli scaffali dell’acqua nei supermercati. Nei ristoranti e nei luoghi pubblici i rubinetti sono stati disattivati e sostituiti da gel igienizzanti. A fabbriche e aziende agricole è stato imposto il dimezzamento dei consumi. Certe imprese sono state costrette a sospendere la produzione. «Ho dovuto tenere chiusa la mia attività per un mese. Ho una famiglia e viviamo del mio lavoro – dice Andy, proprietario di un autolavaggio, tornato oggi in attività –. Per precauzione adesso ho acquistato una pompa che estrae l’acqua dal sottosuolo».

Altre realtà hanno installato taniche raccogli pioggia, come l’ong italiana Cesvi, attiva nella township di Philippi. «Abbiamo una casa di accoglienza per donne vittime di violenza, non possiamo permettere che rimangano senz’acqua», spiega Luvuyo Zahela, coordinatore della Casa del Sorriso.

Taniche e secchi

Sono state escogitate soluzioni: chi ha installato sistemi di controllo a tempo per le docce (due minuti al massimo per lavarsi) e chi ha posizionato catini in modo da riutilizzare l’acqua per il water. Anche i benestanti sono stati obbligati a uscire di casa per procurarsi l’acqua. Ancora oggi si ritrovano in tanti a fare la fila alle sorgenti naturali della Table Mountain. «Riempio tre taniche ogni sabato – spiega un uomo in coda –. In casa la usiamo per lavare perché quest’acqua non è trattata, ma almeno non sprechiamo quella che viene dalle dighe».

Nelle township, gran parte delle persone vive in baracche senza impianti idraulici. «Tutti i giorni, quando torno da scuola, vado a prendere l’acqua alle fontanelle comuni», racconta Likhona Booi, 14 anni, mentre trasporta due pesanti secchi verso la casa di lamiere che condivide con cinque fratelli. «C’è un rubinetto ogni cinquecento persone. Si creano code infinite. E a volte l’acqua finisce prima del proprio turno».

Il Day Zero è arrivato, ma solo in alcune zone: «Nei giorni di massima crisi – racconta Zama Timbela – la municipalità ha completamente bloccato la fornitura nelle baraccopoli, aggravando le precarie condizioni igieniche, quindi sanitarie, della popolazione», che già deve fare i conti con malattie quali tubercolosi e aids in un Paese dove si registra il più alto tasso al mondo di persone affette da Hiv. E c’è chi sulla crisi ha speculato. «Il prezzo dell’acqua minerale è schizzato alle stelle. Una bottiglia da un litro e mezzo prima costava circa 15 rand, adesso 30» (quasi due euro).

Danni economici

Le restrizioni delle autorità e gli accorgimenti adottati dai cittadini hanno permesso di superare la fase più critica. Le piogge che sono tornate hanno fatto tirare un respiro di sollievo. «Il problema però è solo rimandato – avverte Richard Pfaff, ricercatore dell’Environmental Monitoring Group, con sede a Città del Capo –. I cambiamenti climatici e l’aumento della pressione demografica stanno inaridendo la nostra regione».

Le conseguenze stanno già facendosi sentire sul comparto agricolo. «I vigneti delle celebri winelands hanno sofferto moltissimo negli ultimi anni – dice Pfaff –. La produzione vitivinicola è scesa del 20% e le cantine hanno dovuto licenziare migliaia di lavoratori».

Anche l’ortofrutticolo ha subito contraccolpi. Lo conferma Marijke Ehlers, manager della Rooibos Limited, la più antica e grande fabbrica di rooibos, il famoso tè rosso sudafricano: «Nell’ultimo anno abbiamo fatti i conti con un calo produttivo del 15%». Difficile calcolare i danni economici complessivi in un momento già delicato per l’economia sudafricana: la Banca Mondiale ha ridotto le stime di crescita del Pil del 2019 dall’1,8 all’1,3% e previsto un aumento della disoccupazione giovanile, che già supera il 30%.

Soluzioni diverse

Per affrontare la crisi, le istituzioni cittadine hanno cominciato a realizzare impianti di desalinizzazione delle acque delle falde nelle zone costiere. Illustra il consigliere comunale Xanthea Limberg: «Abbiamo già costruito tre impianti, che producono circa 12 milioni di litri al giorno di acqua potabile».

Alcuni attivisti però mettono in guardia dai rischi ambientali: il sale estratto viene smaltito nell’oceano sotto forma di blocchi che potrebbero alterare l’equilibrio dell’ecosistema marino. «Meglio sarebbe valorizzare alcune sorgenti della Table Mountain, la cui acqua oggi finisce sprecata nell’oceano attraverso un sistema di tunnel costruito nell’Ottocento», ammoniscono gli operatori della ong Reclaim Camissa, che propongono di collegare queste fonti naturali all’acquedotto cittadino.

Vi sono inoltre privati che hanno messo a punto soluzioni alternative di recupero. Ray de Vries, proprietario del The Air Water Group, ha inventato una macchina per trasformare la condensa in acqua potabile. Kevin Winter, ricercatore e professore, con il supporto dell’Università di Città del Capo ha avviato progetti di riciclo delle acque contaminate. «Ripuliamo le acque di un ruscello che arriva da una baraccopoli nei pressi della cittadina di Franschhoek per riutilizzarle nell’agricoltura. I risultati sono sorprendenti».

Grazie agli sforzi di tutti, Città del Capo è passata da un consumo di 1,5 miliardi di litri d’acqua al giorno nel febbraio del 2016 ai circa 500 milioni attuali: una riduzione di due terzi. La metropoli sudafricana e i suoi abitanti sono quindi diventati un esempio per il mondo intero, alle prese con le sfide dei mutamenti climatici. I sudafricani, bianchi e neri, ricchi e poveri, hanno dimostrato che consumare di meno non è impossibile e, soprattutto, è necessario. Perché l’acqua non è scontata né infinita.

(di Valentina Giulia Milani – foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero)

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