Durante il genocidio del 1994, costato un milione di vittime, un missionario bergamasco riuscì a salvare tremila persone dai machete dei carnefici. «Ancora oggi fatico a credere di essere riuscito a sopravvivere a quei giorni infernali» Incontro con padre Mario, missionario coraggioso in Ruanda. Giovedì 8 aprile (dalle ore 18.00 alle 19.30) La Rivista Africa in collaborazione con Terre di mezzo Editore organizza un evento online per ricordare il Genocidio dei tutsi in Ruanda.
testo e foto di Marco Trovato
Una coltre di nuvole grigie ha inghiottito le colline del Ruanda. La stagione delle piogge è arrivata in anticipo. I primi temporali hanno trasformato le piste in torrenti in piena. Non è stato facile raggiungere la remota missione di Muhura, nei pressi del confine ugandese, centoventi chilometri a nord della capitale Kigali. Il fuoristrada arrancava sulle salite, scivolava sulle pietraie, sprofondava nella fanghiglia. «Temevo che non ce l’aveste fatta a giungere fin quassù», ci accoglie padre Mario Falconi, 76 anni e prete da 50, fisico asciutto e slanciato, avvolto in una lunga tunica bianca. «Siete arrivati giusto in tempo per il pranzo: accomodatevi a tavola, così potremo parlare».
Situazione esplosiva
Questo vecchio missionario barnabita, nato in un paesino della provincia di Bergamo e trasferitosi quarant’anni fa nel cuore dell’Africa, ha una storia importante da raccontare: una storia personale che s’intreccia con quella di migliaia di altre persone. Ascoltiamo il suo racconto sotto una tettoia in lamiera percossa da scrosci rabbiosi.
«Pioveva a dirotto anche in quella dannata primavera del 1994», ricorda il sacerdote, capelli brizzolati, naso aquilino, il volto solcato dalle rughe, occhiali enormi che riflettono lampi di luce. «Ero arrivato da poco in Ruanda, dopo diciott’anni di missione nell’Est del Congo. Qui trovai una situazione politica e sociale molto tesa». I rapporti tra l’etnia hutu (in prevalenza composta da contadini), che rappresentava l’85% della popolazione, e il gruppo minoritario dei Tutsi (tradizionalmente nomadi) erano pessimi. Il sacerdote faticava a distinguere gli uni dagli altri. Ma l’appartenenza etnica era indicata per legge sui documenti d’identità. Il regime hutu aveva occupato tutti i posti del potere, cacciando i Tutsi ai margini della vita sociale e politica.
Dai villaggi giungevano notizie di violenze tribali. Da una parte i teorici della superiorità hutu scatenavano veri e propri pogrom contro i cittadini del gruppo etnico rivale. Dall’altra i ribelli tutsi del Fronte patriottico ruandese (Fpr), in gran parte esiliati in Uganda, compivano incursioni armate e minacciavano di rovesciare il governo di Kigali.
Cattivi presagi
In pochi si illudevano che il fragile accordo di pace firmato ad Arusha, in Tanzania, potesse tenere. «Ma nessuno aveva previsto l’inferno che ben presto si sarebbe scatenato», commenta amaro il missionario italiano. L’unico presagio sinistro era giunto dalla collina di Kibeho, al centro del Ruanda, balzata all’onore della cronaca per una serie di apparizioni della Vergine Maria, dove cinque giovani veggenti – certificate tali dalla Chiesa cattolica – riferirono di nuove e inquietanti visioni mariane: la Madonna appariva in lacrime tra colline rosse coperte di cadaveri. La notte del 6 aprile l’aereo del Presidente Juvénal Habyarimana, che stava tornando in patria da un colloquio di pace, venne misteriosamente abbattuto da un missile.
La notizia rimbalzò in ogni villaggio sulle onde di Radio Mille Colline che già incitava «i patrioti hutu a vendicarsi del brutale assassinio presidenziale schiacciando i Tutsi come scarafaggi». «Mi sentii gelare il sangue nelle vene», ricorda Padre Falconi. «Era il segnale che annunciava l’inizio del genocidio». Migliaia di giovani membri dell’Interahamwe, una milizia paramilitare e radicale hutu, si riversarono nelle strade armati di machete, bastoni e fucili. Avevano un solo ordine, una sola missione: sterminare l’intera popolazione tutsi. In soli cento giorni avrebbero ucciso un milione di persone (e tra loro centinaia di Hutu moderati che si erano rifiutati di partecipare alla mattanza).
Giorni terribili
«Ricordo molto bene la prima vittima dell’eccidio», racconta padre Mario. «Le suore del nostro ospedale mi chiamarono in piena notte perché c’era un uomo ferito in fin di vita che chiedeva l’estrema unzione. Ammetto che dovetti farmi forza, non sopportavo la vista del sangue. Trovai quel pover’uomo agonizzante, disteso sul letto, il corpo sventrato dalle ferite, la testa fracassata, il volto reso irriconoscibile dalle botte. Faticai a non distogliere lo sguardo… Ma in breve tempo mi sarei abituato a quelle terribili immagini di morte». I giorni che seguirono furono un incubo. In ogni parte del Ruanda uomini, donne e bambini di etnia tutsi venivano massacrati senza alcuna pietà.
«Un giorno incappai in un posto di blocco organizzato dagli estremisti hutu. Avevo la mia auto piena di bambini tutsi. Se mi fossi fermato ci avrebbero fatti a pezzi con i machete. Tremavo dalla paura, il sudore mi colava dalla fronte. Chiusi gli occhi e schiacciai al massimo l’acceleratore, forzando il blocco stradale dei miliziani. Ce la cavammo con l’aiuto del cielo». In tutto il Paese non c’era un solo luogo sicuro. Schiere di persone si rifugiarono nelle chiese, senza sospettare che sarebbero divenute i luoghi delle peggiori stragi del genocidio.
Salvi per miracolo
«Una folla terrorizzata, in fuga dalla furia dei carnefici, cominciò a premere al cancello della missione implorando aiuto. Sistemai circa tremila persone in alcuni edifici dietro al giardino della canonica. E mi organizzai per sfamarli. I locali erano sovraffollati, le condizioni terribili, la gente stremata, i bambini piangevano, c’erano malati bisognosi di cure. Ma fuori dalla missione infuriava la carneficina».
Padre Falconi rifiutò di farsi rimpatriare con gli elicotteri che già avevano portato al sicuro gran parte degli occidentali presenti in Ruanda. «Non potevo andarmene e abbandonare chi aveva riposto in me la propria speranza di salvezza», spiega. «Dopo alcuni giorni i capi locali delle milizie hutu si presentarono alla missione. Mi intimarono di consegnare loro tutti i rifugiati, avvertendomi che in caso contrario avrei fatto la loro stessa fine. Al mio rifiuto mi dissero che il giorno seguente sarebbero tornati coi loro uomini. E che ci avrebbero ucciso tutti. Quella notte mi preparai al peggio. Dissi alla donne di pregare e agli uomini di organizzare la difesa coi poveri mezzi che disponevano. Sapevamo tutti, però, che sarebbe stato impossibile resistere all’assalto».
Il destino gli sorrise: il giorno seguente – quello prescelto per l’attacco alla missione – i guerriglieri tutsi dell’Fpr conquistarono il villaggio di Muhura, mettendo in fuga i miliziani hutu. «Ci salvammo per miracolo. Poche ore prima della nostra condanna a morte».
Segni di speranza
Solo a questo punto – era la fine di aprile – padre Mario decise di lasciare il Ruanda per portare in salvo in Italia una sessantina di orfani. «Feci ritorno a Muhura a settembre. La missione e la chiesa erano state assaltate e saccheggiate. Il mio confratello ruandese che aveva deciso di rimanere era stato ucciso. Ovunque imperversavano banditi e miliziani. Nessuno era in grado garantire la sicurezza. Molti Hutu erano fuggiti in Tanzania per paura di ritorsioni. Chi era rimasto rischiava di morire in seguito a vendette, rappresaglie, regolamenti di conti. Si viveva tutti nel terrore. Dormivo blindato in camera, un armadio contro la porta. Mi facevo coraggio con la preghiera. Ci vollero molti mesi prima che tornasse un minimo di serenità. La svolta? Quando celebrai il primo matrimonio tra un giovane catechista hutu e una ragazza tutsi: il primo segno di riconciliazione».
Sono passati quasi vent’anni dal genocidio. Il Ruanda è rinato dalle sue ceneri. Le discriminazioni etniche sono scomparse per legge. Il governo guidato da Paul Kagame, un ex comandante dell’Fpr, criticato da più parti per suoi modi autoritari, ha faticosamente imboccato la strada del risanamento economico e della pacificazione nazionale.
«Non sono un eroe»
Padre Mario Falconi, umile missionario bergamasco, è stato insignito dalle autorità con un’onorificenza di merito per aver salvato tremila persone innocenti durante la guerra, rischiando la propria vita. «Non mi sento un eroe», dice il sacerdote. «Ho fatto solo il mio dovere di pastore e di cristiano. Come insegna il Vangelo. Ho cercato di aiutare tutti, indipendentemente dall’etnia. Vivo con il rammarico di non essere riuscito a salvare tanta gente».
Ancora oggi vive nella missione di Muhura, dove continua a denunciare con coraggio soprusi e ingiustizie, in difesa dei più deboli. Non è capace di starsene in disparte, di girare lo sguardo altrove. Le sue omelie a volte danno fastidio a qualche potente. La polizia lo richiama all’ordine. Due sicari hanno persino cercato di ucciderlo. Se l’è cavata anche quella volta. «Guarda quanto è grande e bella la mia parrocchia», dice dall’alto dal campanile della chiesa. Con un gesto della mano abbraccia le verdi colline che ci circondano. Indica l’ospedale, l’orfanotrofio, le scuole medie, il liceo, l’acquedotto. «Mi resta ancora molto da fare qui», dice. Poi lo sguardo si appanna, assorto in chissà quali pensieri. A ridestarlo sono gli schiamazzi dei bambini che giocano a pallone giù nella piazza. «I giovani sono l’unica speranza», si scrolla di dosso i ricordi del passato. «Non hanno vissuto il genocidio e possono imparare a convivere in pace… Quello che è successo non deve più accadere. Mai più».
(testo e foto di Marco Trovato)
Questo articolo è uscito sul numero 4/2013. Per acquistare una copia della rivista, clicca qui, o visita l’e-shop.
La Rivista Africa in collaborazione con Terre di mezzo Editore organizza un evento online per presentare in anteprima il libro Nonostante la paura di Jean Paul Habimana, sopravvissuto alle terrificanti violenze della primavera del 1994 in cui nel cuore dell’Africa persero la vita un milione di persone. Intervengono, oltre all’autore, il giornalista di Famiglia Cristiana Luciano Scalettari e il regista Alessandro Rocca, autore del documentario La Lista del Console. Per partecipare, clicca qui
Eroi e criminali in tonaca
Per la Chiesa cattolica il genocidio ruandese – uno dei peggiori stermini di massa nella storia – è una ferita che fatica a cicatrizzarsi. Ai tempi della carneficina il Ruanda era il Paese più cristianizzato dell’Africa: almeno il 65 per cento della popolazione era composto di cattolici e il 15 per cento di protestanti. Nella primavera del 1994 alcuni religiosi, come padre Mario Falconi, si distinsero per il coraggio con cui cercarono di salvare tanti innocenti dalla furia degli assassini. Ben 248 sacerdoti, missionari e operatori pastorali morirono durante la guerra: molti erano di etnia tutsi o presero le difese dei perseguitati.
Altri “uomini di fede” si distinsero per ragioni opposte. Padre Athanase Seromba, per esempio, è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per aver partecipato al massacro di duemila persone. Il sacerdote, responsabile di una parrocchia nella regione di Kibuye, nel Ruanda occidentale, fece abbattere a colpi d’artiglieria la propria chiesa per uccidere i tanti Tutsi che vi avevano cercato rifugio attirati dallo stesso sacerdote, partecipando inoltre al successivo massacro dei pochi superstiti. L’ex prete, che sta scontando la sua pena in un carcere in Benin, non ha mostrato segni di pentimento.
Anche alcuni gerarchi della chiesa ruandese si resero responsabili di fatti gravissimi. Il vescovo di Kigali Vincent Nsengiyumva, confessore personale del dittatore hutu Juvénal Habyarimana nonché esponente del Comitato centrale del partito al potere, consegnò alle milizie Interahamwe le liste di centinaia di preti tutsi, condannandoli a morte. Venne a sua volta ucciso da militari tutsi nel giugno del 1994, assieme ad altri due vescovi e tredici sacerdoti cattolici accusati di aver aiutato i carnefici.
Cento giorni di follia
Il genocidio in Ruanda è stato uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’uomo e si è consumato in soli cento giorni. Ecco la sua cronologia essenziale.
Mercoledì 6 aprile 1994, ore 20. L’aereo presidenziale di Juvénal Habyarimana (al potere con un governo dittatoriale dal 1973) viene abbattuto da un missile in fase di atterraggio a Kigali.
Giovedì 7 aprile. All’alba a Kigali iniziano i massacri, i saccheggi, gli incendi di interi quartieri. Cominciano gli assassini sistematici degli oppositori, tutsi e hutu moderati.
Venerdì 8 aprile. Le violenze dei miliziani interahamwe si estendono a tutto il Paese. Il Ruanda è abbandonato a sé stesso dalla comunità internazionale. I guerriglieri tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (FPR) avanzano dall’Uganda.
22 giugno. Ha inizio l’operazione militare francese Turquoise: la Francia invia i propri soldati in Ruanda per proteggere i civili Hutu in fuga. Gli autori dei massacri, nascosti tra i profughi, ne approfittano per fuggire in Zaire.
4 luglio. Il centro di Kigali cade nella mani dell’FPR.
Da leggere
• Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie (di Philip Gourevitch, Einaudi 2000, € 18,00)
• A colpi di Machete. La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda (di Jean Hatzfeld, Bompiani 2004, € 17,00).
• Le Cicatrici del Ruanda (di Valentina Codeluppi, EMI 2012, € 13,00).
• Rwanda. Istruzioni per un genocidio (di Daniele Scaglione , Infinito 2010, € 14,00).
• Un giorno vivrò anch’io. Il genocidio del Rwanda raccontato ai giovani (di Yolande Mukagasana, La meridiana 2011, € 13,00).