Costa d’Avorio: gli ingredienti per la riconciliazione

di Valentina Milani

Ridare dignità alle vittime della guerra, adoperare un meccanismo di giustizia transizionale – non tanto per punire ma per dovere di memoria – essere in grado di pentirsi e chiedersi perdono a vicenda; e ancora, attivare decisioni che coinvolgano ufficialmente la nazione e perché no, fare leva sui meccanismi tradizionali di non aggressione che esistono nel variegato tessuto etnico ivoriano.

Sono questi gli ingredienti di una possibile ‘ricetta’ della riconciliazione nazionale esposti ad Africa Rivista/InfoAfrica ad Abidjan da Maurice Gnagne Yadou, vicepresidente del Fronte popolare ivoriano (Fpi) responsabile delle rappresentazioni del partito all’estero, in occasione di una conversazione a ridosso del ritorno in Costa d’Avorio del fondatore del Fpi e già presidente della Repubblica Laurent Gbagbo, assolto dalla Corte penale internazionale dieci anni dopo il suo spettacolare arresto ad Abidjan.

Riconciliazione è la parola chiave che accompagna da settimane la notizia del ritorno in patria del 76enne storico e politico, ancora molto popolare. Ma la riconciliazione non si farà da sola. Servono iniziative, e come sottolinea il professor Gnagne, è fondamentale il dovere di memoria. Sarebbe opportuno, ritiene, riconoscere l’esistenza di fosse comuni, ancora sparse sul territorio, dare una dignitosa sepoltura alle vittime. “Lo Stato della Costa d’Avorio dovrebbe darsi i mezzi di seguire in qualche modo l’esempio del Rwanda, con la realizzazione di un memoriale, se necessario di ossari, affinché non si dimentichi mai quello che è accaduto. Solo il ricordo può consentire di non ripetere gli errori del passato”, ritiene Gnagne, convinto che la materializzazione dell’aspetto memoriale della crisi può consentire a questa generazione e quella che seguirà di non dimenticare.

Un altro passaggio utile secondo Gnagne, professore di medicina in pensione, è sicuramente quello di una giustizia transizionale, sulla falsariga dei tribunali popolari “gaçaça” in Rwanda. “Non tanto per infliggere una pena, ma per sancire la memoria delle responsabilità”, dice. Sul principio, aggiunge, “non ci potrebbe essere pace senza giustizia. Dopo la sconfitta della Germania si è voluto fare processi a Norimberga, proprio per fare giustizia” dopo la seconda guerra mondiale e la Shoah. Ed è solo un esempio tra molti, come quello della Repubblica centrafricana che proprio in questi mesi sta costituendo il suo tribunale speciale sui crimini dal 2003 in poi.

Nella riconciliazione, aggiunge, “vige un principio di reciprocità. Le due parti devono accettare di volersi riconciliare, riconoscere il torto commesso all’altro e accettare di ricevere il perdono altrui. Il pentimento che conduce al perdono e alla riconciliazione. Un eventuale mediatore può guidare il quadro creato. Ma deve esserci volontà degli interessati”. E nell’ambito del processo di riconciliazione post-bellico ivoriano, è auspicabile “un processo ufficiale che coinvolga la nazione. Azionare il diritto, creare un tribunale speciale per portare tutti a riconoscere i torni causati al popolo, al Paese, per facilitare un movimento nazionale di riconciliazione”. E a questo punto, precisa l’esponente del Fpi, “è evidente che possiamo attivare le leve tradizionali”. Come spiega ad AfricaRivista/InfoAfrica, prima della colonizzazione la Costa d’Avorio era abitata da decine di etnie la cui coesistenza si reggeva su patti di non aggressione, ribattezzati dai colonizzatori francesi “alliance plaisanterie” (l’alleanza degli scherzi). Accordi tradizionali così forti che sono intrecciati nel tessuto etnico sociale ivoriano, che storicamente, non si farebbe mai la guerra.

Ma la guerra, però, c’è stata, scattata nel 2002 dal nord del Paese (dov’è molto importante la componente non ivoriana) con basi in Burkina Faso, e ha messo in crisi la nazione e le sue istituzioni fino alla primavera del 2011, epilogo culminato con il braccio di ferro post elettorale fra Gbagbo e l’avversario Alassane Dramane Ouattara, eletto presidente al termine di un processo molto controverso, violento e segnato da accuse di brogli. Il 19 settembre 2002, giorno del tentato golpe che diede il via alla divisione del Paese, Gbagbo si trovava a Roma per importanti accordi di cooperazione con l’Italia, ricorda Gnagne.

“Dal 29 marzo all’11 aprile 2011 si è scatenata una vera e propria guerra contro la Costa d’Avorio (…) su Abidjan, sulla residenza presidenziale, nei supermercati (…) Hanno sparato su civili che avevano costituito uno scudo davanti alla presidenza. Nessuno può dire il numero esatto di morti. Il numero simbolo di 3mila non prende in considerazione l’inizio della crisi, il 2002”

Cosa risponde a chi sostiene che la vittoria spettava effettivamente a Ouattara e che sarebbe stato meglio Gbagbo accettasse la sconfitta e giocasse il suo ruolo di leader dell’opposizione? “Siamo testimoni della nostra storia – risponde Gnagne  – e lo sono anche le strutture installate per monitorare le elezioni. La stessa Onu aveva detto che non erano presenti le condizioni per elezioni libere e trasparenti poiché i ribelli non avevano deposto le armi, come chiedevano gli accordi di Ouagadougou”. Gnagne, e lo fanno tutti i sostenitori di Gbagbo, ricorda quello che il loro schieramento considera la “farsa” della proclamazione dei risultati elettorali. Il Consiglio Costituzionale, organo costituzionalmente preposto, sancì la vittoria di Gbagbo al secondo turno con circa il 51%. Furono però i risultati della Commissione elettorale indipendente, il cui presidente comparve presso il quartier generale di Ouattara nell’Hotel del Golf, ad annunciare la vittoria di Ouattara, diffusi dall’emittente francese France24 e non dalla Radio Televisione ivoriana Rti.

La guerra ha fatto vittime sia tra i sostenitori di Gbagbo che fra quelli di Ouattara e del gruppo ribelle delle Forze nuove. Ad oggi, è stato Gbagbo ad affrontare un processo internazionale, dal quale è uscito scagionato sia in primo grado che in appello. La procuratrice Fatou Bensouda non è riuscita a portare le prove della colpevolezza per crimini di guerra e contro l’umanità, nonostante 82 testimoni. 

(Testo e foto Céline Camoin, da Abidjan)

*Nella foto: simpatizzanti il giorno del ritorno di Laurent Gbagbo appena fuori dai cancelli dell’aeroporto di Abidjan.

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