Costa d’Avorio: oltre il punto di rottura, il nodo della riconciliazione

di Celine Camoin

«Constatiamo la fine del mandato del presidente Alassane Ouattara e invitiamo la comunità internazionale a prenderne atto. Chiediamo l’apertura di una transizione civile, che crei le condizioni di un’elezione presidenziale giusta, trasparente e inclusiva»: con queste parole, pronunciate ieri pomeriggio in conferenza stampa, il portavoce del raggruppamento dei partiti d’opposizione e candidato Pascal Affi N’Guessan ha sancito il punto di rottura.

La dichiarazione, categorica quanto pericolosa in un contesto già estremamente teso, è giunta all’indomani di una giornata ritmata da immagini e proclami contraddittori, precedentemente all’annuncio dei primi risultati parziali ufficiali. Solo sabato 31 ottobre, il giorno delle elezioni, secondo il portavoce dell’opposizione sono rimaste uccise una trentina di persone, vittime – sempre secondo Affi – della violenza dei sostenitori del Rhdp (Raggruppamento degli houphouetistes per la democrazia e la pace), il partito del presidente uscente. Nel suo discorso, il leader del Fronte patriottico ivoriano (Fpi) usa l’espressione «battaglia epica» per definire lo sviluppo di questo processo elettorale, ricorrendo a un linguaggio bellico che ha distinto la campagna da quando Ouattara ha annunciato di candidarsi per un terzo mandato consecutivo, per colmare il vuoto lasciato dal decesso improvviso del suo delfino designato, Amadou Gon Coulibaly.

Fotografie e filmati di urne elettorali manomesse, incendiate, di schede elettorali sparse per strada, di strade sbarrate per impedire il trasporto del materiale elettorale, hanno fatto da altoparlante ai sostenitori dell’opposizione e ai fautori della «disobbedienza civile» promossa da N’Guessan e dall’altro candidato di spicco, l’ex presidente nonché ex alleato di circostanza di Ouattara, Henri Konan Bedie. «Meno del 10% degli aventi diritto è andato a votare» sostengono gli oppositori, cercando in questo modo di delegittimare il voto. Nel campo della maggioranza, al contrario, sono state diffuse immagini di file composte di elettori, nel rispetto degli appelli alla calma. Il caos dei disobbedienti, secondo la commissione elettorale nazionale indipendente, avrebbe causato incidenti solo in una cinquantina di seggi in tutto il territorio nazionale.

La rigidità delle posizioni è tale che rende difficile, per un giornalista dall’estero, la lettura accurata e imparziale del voto del 31 ottobre. L’osservazione indipendente dell’Ong Indigo-Plaidoyer PTI può fornirci una visione alternativa e probabilmente credibile: «Le zone interessate dalla non apertura sistematica dei seggi rappresentano una fetta significativa dell’elettorato, impossibilitato a esprimere liberamente il proprio diritto di voto, o nel caso in cui è stato possibile, lo è stato in un contesto di paura e d’inquietudine». Gli osservatori dell’Ong hanno registrato 391 incidenti nel giorno delle elezioni, caratterizzato da molta disinformazione online, sospetti di riempimenti forzati di urne elettorali, di tensioni legate al boicottaggio attivo, degenerate in scontri intercomunitari, con perdite in vite umane e importanti danni materiali.

Il punto di rottura, dunque, sembra arrivato. Era palpabile dal mese di agosto, quando la scelta di Ouattara – o meglio «la scelta del mio partito e di conseguenza della maggioranza», sostiene l’anziano leader – è diventata motivo di aspro dibattito sulla legittimità costituzionale della terza candidatura. L’accanimento non è però solo formale e fa emergere uno dei grandi fallimenti attribuiti a Ouattara: quello della mancata riconciliazione nazionale.

«Possiamo riconoscere a Ouattara successi formidabili dal punto di vista delle infrastrutture, tassi di crescita del Pil invidiabili…Ma il suo grande errore è stato nella riconciliazione nazionale» afferma ad Africa uno dei membri del movimento della società civile Tournons la page, che preferisce mantenere l’anonimato in un contesto che lui stesso definisce «di paura generalizzata». «Veniamo da un lungo periodo di divisione, in particolare dalla crisi del 2002, proseguita poi nel 2010. Il ruolo di questo nostro presidente, eletto, era quello di poter conciliare tutte le posizioni. Il capo dello Stato non deve essere il presidente di un partito ma di tutti gli ivoriani. Ed è, purtroppo, quello che Ouattara non è stato». Citando i casi più noti dell’ex presidente Laurent Gbagbo e del suo alleato Charles Ble Goude, prosciolti dalla Corte penale internazionale ma tuttora ostacolati nel poter rimpatriare, il nostro interlocutore sostiene che sono ancora costretti all’esilio esponenti del Pdci (il partito di Bedie) e numerosi ivoriani, dalla crisi post-elettorale del 2010. Gente anonima, sostiene, è chiusa in cella da anni senza processo.

Di ferite del passato non ancora cicatrizzate ha parlato anche a VaticanNews il gesuita padre Arsène Brice Bado, vicepresidente del Cerap, il Centro di ricerca e d’azione per la pace all’università gesuita d’Abidjan. «Gli avversari si guardano in cagnesco, nessuno valuta di perdere. Peggio, la mentalità ivoriana è articolata attorno a una mentalità di rivincita: se perde uno schieramento, questo è convinto che i rivali cercheranno la rivincita».

Fattore cruciale della ricostruzione della nazione – reduce del confitto scoppiato nel 2002 tra i ribelli delle Forze Nuove e l’allora presidente Laurent Gbagbo, successore del golpista Robert Guei che aveva rovesciato Bedie nel 1999, ma ancora, della spaccatura nata con le elezioni del 2010 in cui furono rivali Gbgabo e Ouattara –  la riconciliazione di cui doveva occuparsi l’attuale presidente doveva riavvicinare gli antagonisti, le vittime e i perpetratori, e progressivamente limare le differenze comunitarie tra ivoriani. Secondo il giornalista Vincent Hugeux, le divisioni nascono ancora prima, nel 1993, e hanno per protagonisti due eredi di Felix Houphuet-Boigny: Henri Konan Bedie e Alassane Dramane Ouattara. «Nell’arena politica odierna, troviamo vendicatori, superstiti e fantasmi. Con una buona dose di ego. Una situazione paradossale, se si considera l’età media degli ivoriani, che è di 19 anni» ha detto l’esperto francese del continente africano in un’analisi per TV5 Monde.

«Sebbene la situazione sia davvero elettrica, come lo dimostrano le fughe di popolazioni verso le campagne e l’assalto che c’è stato nei negozi per fare provviste nei giorni scorsi, non credo che arriveremo a una divisione fisica del Paese, come accaduto in passato. Ma le comunità sono già divise. Sono divise e strumentalizzate. Assistiamo ancora a un confronto tra i dioula, gente del nord, originaria per buona parte dall’immigrazione dai Paesi confinanti, e gli autoctoni, come ad esempio i baoule e i guere, vicini all’opposizione» chiarisce Rosa, abitante di Abidjan, chiusa in casa, raggiunta telefonicamente da Africa. Nemmeno Rosa, una dipendente della pubblica amministrazione in ambito universitario, vuole testimoniare con la sua vera identità, per paura di rappresaglie. «Il nostro Paese è stato guidato negli ultimi 10 anni nel disprezzo dei diritti fondamentali dei cittadini. Per noi africani, il rispetto della nostra dignità e dei nostri diritti è più importante del denaro. Ouattara ha strumentalizzato la questione etnica, ha avvantaggiato il proprio schieramento, a discapito degli altri. Dove sono finiti i soldi del progresso macro-economico?  Nel mio caso, come in quello di molti dipendenti universitari, è ancora in ritardo lo stipendio».

(Céline Camoin)

Nella foto: Pascal Affi N’Guessan annuncia la fine del mandato del presidente Ouattara e chiede una transizione civile

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