Inaugurato da pochi mesi per volere di una coraggiosa imprenditrice, e protetto da guardie ben armate, il Posh Treats è l’unico luogo di svago in una città distrutta e annichilita dal terrore oscurantista dei jihadisti.
Come teschi dalle orbite vuote, i palazzi di Mogadiscio sventrati dalle esplosioni assistono alla corsa frenetica dei cittadini somali verso i propri domicili. È terminata l’ultima preghiera e un brulicare veloce di uomini e donne esce dalle moschee e attraversa le strade della capitale. Sono rapidi, furtivi, i cittadini somali, perché, assolto l’ultimo dovere quotidiano al cospetto di Allah, sanno di dover riparare nelle proprie abitazioni il più fretta possibile. La capitale somala da oltre vent’anni è sprofondata in un vortice di violenza, ma anche la tragedia ha un suo apogeo e nella guerra somala questo è rappresentato dalla notte. Con l’oscurità, infatti, i miliziani di al-Shabaab fanno incursioni nei campi profughi e lanciano colpi di mortaio. L’orrore colpisce prepotente in ogni dove e si alimenta del buio.
Concerti e narghilè
Al «Km 5», uno dei quartieri centrali di Mogadiscio, però, il suono di un liuto, accompagnato da risate e battimani, sembra sfidare l’oscurantismo imposto dai jihadisti. A proteggere i canti di felicità, un muro di cinta e degli uomini di guardia che, appostati sulle torrette, tengono sotto tiro ogni accesso alla via dove è situato il Posh Treats. È questo il nome dell’oasi di vita di Mogadiscio: il primo locale notturno della città, un country club dove la gioventù della capitale, e soprattutto i figli della “diaspora” ritornati nel loro Paese, s’incontrano, bevono tè e ascoltano musica, vincendo il terrore.
Le porte del country club si spalancano e all’ingresso, a far gli onori di casa, c’è Manar Moalin, la fondatrice e titolare del locale. Il volto, illuminato da una lampada a petrolio, è circondato da un velo che evidenzia il suo sorriso eburneo e lei, seduta in veranda mentre l’incenso si diffonde ovunque, incomincia a raccontare la sua storia, legata a doppio filo a quella del suo locale: «Quando avevo sette anni sono scappata da Mogadiscio per via della guerra e ho iniziato a vivere tra Napoli, Londra e Dubai. Mia madre due anni fa è tornata in Somalia e mi ha detto che la situazione stava cambiando e che si stavano aprendo spiragli di normalità. Ho deciso quindi di tornare anch’io. A Dubai gestivo con successo un centro benessere e mi sono chiesta: “Perché non avviare qualcosa del genere anche qua nella capitale del mio tormentato Paese?”. È così che il 5 gennaio 2015 ho aperto il Posh Treats».
Il locale comprende una sala biliardo, una palestra, un parrucchiere, un barbiere, una guest house, uno spazio concerti e delle sale per fumare il narghilè. Ogni giorno, dalle settanta alle cento persone frequentano la struttura. Donne che vanno a farsi belle approfittando della presenza di estetiste etiopi, uomini che sfruttano la palestra e poi giocano a biliardo, e ragazzi e ragazze che si scambiano sguardi di complicità, seduti sui divanetti e liberi dallo spettro di un peccato mortale che l’eresia ha elevato a condotta morale.
Una scelta difficile
«Ho deciso di aprire il country club perché la gioventù somala ha diritto a una vita, ai piaceri della vita. Ma questo mio desidero di dare un contributo all’avvenire del mio Paese non è stato scevro di conseguenze». Manar s’interrompe e risponde al walkie talkie che porta sempre con sé: ogni mezz’ora tutte le guardie del locale la informano della situazione. Una volta riagganciata la trasmittente, la donna spiega: «Fin da subito sono stata bersaglio di minacce e intimidazioni. Per il momento non si sono mai verificati gravi incidenti, il locale si trova in un quartiere molto blindato. Ma non posso uscire da queste mura, se lo facessi so che mi ucciderebbero. Il mio sogno e il mio sacrificio per la Somalia si sono trasformati nella mia prigione».
Parlando del presente del suo Paese, Manar racconta i problemi legati alla corruzione, all’incapacità governativa di affrontare i jihadisti e alla mancanza di futuro per i tanti suoi coetanei che hanno conosciuto solo armi e sangue. Poi con orgoglio aggiunge: «Questo che vedete è il mio impegno per il riscatto della Somalia».
Luci rosse illuminano il palco, la musica prosegue e nella piccola pista da ballo alcuni ragazzi decidono di lanciarsi in una cadenzata danza liberatoria. Hassan smette di ballare, si avvicina al narghilè, aspira del tabacco e confessa: «È tre mesi che sono tornato. In Somalia è difficilissimo vivere, c’è la guerra, ma questo è il mio Paese e occorre impegnarsi perché ritorni la pace». Espira il fumo e affida alla nuvola dal sapore di tabacco e menta questo messaggio di speranza che, libero di evadere, pervade le stanze del country club. Fuori, per le strade di Mogadiscio, invece, la musica della notte permane quella di sempre, fatta di ossessive raffiche di kalashnikov e grida di anonime vittime che, ancora una volta, echeggiano nell’oscurità somala.
(testo di Daniele Bellocchio – foto di Marco Gualazzini)