Ifeanyi M Nsofor è un medico e un ricercatore nigeriano con un ottimo curriculum vitae. Nel marzo 2020, è stato inserito da Onalytica (la piattaforma che misura l’effettiva influenza degli influencer) nella top100 dei professionisti sanitari impegnati globalmente sul fronte del coronavirus. Insieme con Maru Mormina, che si occupa di etica per l’Università di Oxford, ha recentemente pubblicato un lungo testo in cui parla delle (tante) cose che i cosiddetti paesi in via di sviluppo (developing countries) potrebbero insegnare sulla gestione delle pandemie ai “cugini” ricchi e che questi ultimi però, per complesso di superiorità e sprezzo del pericolo, non vogliono imparare.
Partiamo dei numeri. Nsofor e Mormina osservano che, a nove mesi dall’inizio della pandemia, Europa e NordAmerica rimangono le regioni più colpite dal Covid-19. Dieci dei 20 paesi con il più alto numero di morti per milione di persone sono europei. Gli altri dieci sono nelle Americhe. Fatte salve le dovute eccezioni, Africa e Asia sembrano essere state complessivamente risparmiate. E vari Paesi stanno gradualmente riavvicinandosi alla normalità. Certo, come è stato spesso detto, la discrepanza può dipendere in parte da una differenza di approccio nella registrazione dei decessi, dall’età media più giovane degli abitanti o anche dai livelli più alti di anticorpi potenzialmente protettivi. Ma “in parte” è diverso da “del tutto” e le testimonianze dirette di chi vive, per esempio, in Senegal o in Ghana, confermano un trend distinto rispetto alla situazione europea e americana. C’è stato, da parte dei paesi africani e asiatici, un modo diverso di approcciare il problema. Metterlo a fuoco potrebbe essere molto utile per le nazioni industrializzate.
La prima cosa da osservare è che, per le nazioni africane, il Covid-19 non ha rappresentato un problema singolo, bensì una nuova emergenza che andava a inserirsi in un quadro già articolato e complesso. Il bollettino settimanale dell’Organizzazione mondiale della sanità su focolai e altre emergenze ha mostrato che, alla fine di settembre, i paesi dell’Africa subsahariana stavano affrontando 116 eventi di malattie infettive in corso, 104 focolai e 12 emergenze umanitarie. Questa familiarità con le emergenze ha reso questi paesi più attenti e determinati a impiegare le scarse risorse per fermare le epidemie prima che si diffondano. Quando le risorse sono limitate, il contenimento e la prevenzione sono le migliori strategie.
Per rendersi conto di cosa questo significhi, Nsofor e Mormina suggeriscono un paragone tra Gran Bretagna e Mauritius (che al contrario di quel che la gente pensa non è una sperduta isoletta ma la decima nazione più densamente popolata al mondo). Mentre Londra esitava e organizzava riunioni, Port Louis ha iniziato a controllare gli arrivi negli aeroporti e mettere in quarantena i visitatori dai paesi ad alto rischio due mesi prima che il primo caso mauriziano fosse rilevato. Osservazioni simili si possono fare sulla Nigeria, sul Senegal e su molti altri Paesi.
Un altro aspetto rilevante riguarda la collaborazione. «I leader africani hanno anche mostrato un forte desiderio di lavorare insieme per combattere il virus, un’eredità dell’epidemia di Ebola dell’Africa occidentale del 2013-2016 – si legge nel testo – Questa epidemia ha sottolineato che le malattie infettive non rispettano i confini e ha portato l’Unione africana a istituire i Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC)». Certo, ci sono state eccezioni e anche punte di negazionismo istituzionale (si pensi alla Tanzania), ma nel complesso la disponibilità a fare rete è stata significativa e veloce ad attivarsi.
L’Unione africana ha anche istituito una piattaforma continentale – l’Africa Medical Supplies Platform (AMSP) – per contenere i costi di approvvigionamento delle forniture mediche e di laboratorio e per evitare situazioni concorrenziali. Avete presente quando Trump ha provato ad acquistare in esclusiva il vaccino che un’azienda tedesca stava mettendo a punto e quando sempre gli USA si sono accaparrati un carico di mascherine destinato alla Francia pagandolo tre volte di più? L’AMSP serve proprio a evitare situazioni di questo genere.
In realtà anche l’Unione Europea aveva concepito una piattaforma simile, ma l’inizio irregolare combinato alle lentezze burocratiche ha spinto vari paesi a muoversi in autonomia e spesso l’un contro l’altro. L’AMSP ha evitato questo destino anche grazie alla scelta dell’Unione Africana di mettere tutto sotto la guida di Strive Masiywa, miliardario filantropo originario dello Zimbabwe, esperto di telecomunicazioni (uno degli africani a far parte della campagna The Giving Pledge, ideata da Bill Gates per convogliare i ricchi più ricchi del pianeta verso la filantropia).
Un altro aspetto molto importante riguarda l’innovazione, quella vera e frugale. All’inizio della pandemia, il Senegal ha iniziato a sviluppare un test Covid-19 veloce ed economico (costo: meno di 1 dollaro) che non richiede sofisticate apparecchiature di laboratorio. Allo stesso modo, gli scienziati in Rwanda hanno sviluppato un algoritmo intelligente che ha permesso loro di testare molti campioni contemporaneamente unendoli insieme. Ciò ha ridotto i costi e i tempi di consegna, e ha permesso di raccogliere dati più completi e coerenti anche sull’andamento della malattia. Ne abbiamo parlato spesso anche noi su Africa e gli esempi di imprenditorialità e innovazione non si limitano al campo biomedico. In Ghana, un ex pilota la cui compagnia è specializzata nell’irrorazione dei raccolti ha riproposto i suoi droni e li ha fatti disinfettare i mercati all’aperto e altri spazi pubblici. Questo ha portato a termine in modo rapido ed economico un lavoro che normalmente avrebbe richiesto diverse ore e mezza dozzina di persone. E in Zimbabwe, le start-up di generi alimentari online stanno offrendo nuove opportunità ai venditori di cibo. Questi esempi illustrano l’importanza della capacità di innovare in condizioni di scarsità – ciò che è noto come “innovazione frugale”. Dimostrano che soluzioni semplici ed economiche possano risolvere problemi complicati.
La pandemia ha reso evidente perché ci sia bisogno di solidarietà globale. La globalizzazione ha reso i paesi interdipendenti, non solo economicamente ma anche biologicamente. Eppure negli ultimi mesi hanno prevalso le posizioni isolazioniste. Dagli Stati Uniti che ritirano i finanziamenti dall’OMS al rifiuto del Regno Unito di partecipare all’accordo sugli appalti congiunti dell’UE, i paesi stanno invece perseguendo strategie “fai da te”. In questo contesto, non c’è da meravigliarsi se le nazioni industrializzate non riescono a trarre vantaggio dagli insegnamenti dell’Africa. Ma se il Covid-19 ha insegnato qualcosa, è che questi tempi richiedono di ricalibrare le percezioni di conoscenza e competenza. Una “seconda ondata” è già alle porte dell’Europa. Molti paesi dell’emisfero meridionale sono ancora nel mezzo del primo. «Il tanto discusso programma di preparazione globale richiederà che le risposte siano gestite in modo molto diverso da quello che abbiamo visto finora, con la solidarietà globale e la cooperazione al centro», concludono Nsofor e Mormina. «Un inizio sano sarebbe che i paesi che si considerano sviluppati si liberassero della loro mentalità “mondiale”, e coltivassero l’umiltà di impegnarsi e confrontarsi con paesi a cui normalmente non guardano».
(Stefania Ragusa)