L’Africa ha davanti a sé un difficilissimo nodo da sciogliere. Tradotta in soldoni, ecco la domanda delle domande: è più temibile la crisi sanitaria o quella economica? E se le autorità africane fossero costrette a scegliere se contenere l’una o l’altra? E a quale prezzo? Si dirà che l’Africa non è nuova a epidemie. Eppure questa crisi non è uguale alle altre. Cerchiamo di capire perché.
Un sistema sanitario fragilissimo
Di diverso rispetto ad altre epidemie scoppiate nel continente c’è purtroppo il tasso di diffusione del Covid-19. Molto più capillare (a oggi, 50 Stati su 54 del continente hanno dei casi confermati) ed esponenzialmente contagioso. L’Africa è pronta ad arginare una tale ondata? Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), solo il 3% del personale medico mondiale si trova sul continente. In Africa sono presenti sul territorio 4,5 medici ogni 100.000 abitanti, contro, ad esempio, la media italiana di 376 su 100.000. Le unità di terapia intensiva in tutto il Kenya sono circa 150, in Senegal 50 e in Tanzania ed Etiopia 40 circa (e va considerato che medici e unità di terapia intensive sono concentrati nelle principali aree urbane e del tutto assenti nelle aree rurali). In Italia sono circa 9000, in Germania circa 28.000. In altri termini, la pressione potenziale sulle strutture sanitarie dei Paesi africani – già in situazione critica prima dello scoppio dell’emergenza – renderà la tenuta del sistema insostenibile se si registreranno curve di contagio simili a quelle europee, cinesi o statunitensi. Purtroppo, ad oggi nessuna evidenza scientifica ci dice che l’Africa può seguire una curva diversa. Si è detto che temperature elevate potrebbero essere un inibitore alla trasmissione del virus, ma non c’è nessuno studio convalidato a tal riguardo.
Quei dati così poco attendibili
A tutto ciò si aggiunge la difficoltà dei sistemi sanitari africani di fare tamponi su media e larga scala. Difficoltà che si accompagna alla scarsa disponibilità di laboratori diagnostici in grado di elaborare rapidamente i dati. I tamponi e le analisi di laboratorio hanno infatti un costo che i sistemi sanitari nazionali non sono in grado di sostenere. Gli oneri diagnostici e terapeutici saranno dunque largamente a carico dei singoli e solo una risicata parte della popolazione potrà sostenerne i costi. Di conseguenza, dati scientifici e statistici attendibili sul numero di contagi e di morti già mancano e mancheranno per tutta la durata della crisi. Quando oggi si legge, ad esempio, che la Nigeria ha 224 casi confermati, bisognerebbe chiedersi in realtà su quanti tamponi effettuati. Ad oggi, però, nessun Paese africano ha dichiarato pubblicamente il numero di tamponi fatti: in ogni modo risulta difficile immaginarsi numeri elevati, data la carenza di kit diagnostici e di personale sanitario. In questo quadro si aggiunge la difficoltà di assicurare una politica di prevenzione estesa sul territorio nazionale. Lavarsi le mani ripetutamente è un lusso che la maggior parte della popolazione rurale (ma non solo) africana non si può permettere. Inoltre, è difficile ipotizzare una capillare distribuzione di mascherine su larga scala: servirebbero risorse logistiche e organizzative molto importanti e con costi di gestione notevoli. Il quadro pare dunque molto complesso. Per evitare il collasso del sistema sanitario l’unica soluzione possibile è una forma prolungata di lockdown. Ma l’Africa può permetterselo?
Il lockdown impossibile
Si dirà che la popolazione africana è più giovane e quindi più resiliente. Due notazioni vanno però fatte. Un uomo africano di 50 anni che ha lavorato per una vita nelle campagne ha probabilmente lo stesso grado di logorio fisico di un uomo italiano di 70 abituato a lavori meno faticosi. Per di più, una popolazione giovanile malnutrita (non scordiamo che in Africa il problema della malnutrizione è cronico e diffuso in ambito sia rurale che urbano) e costantemente esposta e colpita da malattie (malaria, febbri tifoidi e altro) non è affatto detto che abbia un sistema immunitario più forte e preparato a rispondere al contagio da Covid-19. Non scordiamoci inoltre che nuclei familiari molto estesi come quelli africani potrebbero purtroppo essere veicolo ulteriore di trasmissione del virus.
Ora, certamente è corretto dire che diversi Stati africani si sono mossi con misure di contenimento mirato e attivando protocolli di prevenzione già sperimentati in altre crisi. Termoscanner agli aeroporti, lockdown in selezionate aree (se non ovunque come in alcuni casi) e altre ancora. Ma per quanto tempo è possibile per una popolazione in maggioranza dedita al lavoro informale rispettare prolungate misure di lockdown? Riduciamo questo assunto a due esempi di vita reale.
Il rischio di rivolte
Periferia di Nairobi. L’autista di matatu (si tratta di mezzi di trasporto pubblico) a cui è richiesto di fermare le corse per alcune settimane o anche di diminuire il numero di passeggeri da 40 a 10 per corsa, con quali soldi pagherà i costi di gestione del mezzo garantendo i pasti ai suoi numerosi figli e nipoti? Secondo esempio. Lagos. Il governatore dello Stato ha decretato due settimane di lockdown per una città che non conosce pause e con una popolazione di più di 25 milioni di abitanti. Cosa porteranno a tavola stasera gli operai non protetti da contratti e previdenza sociale? Rimarranno a casa o sfideranno le regole vigenti per cercare comunque una forma di reddito? E quale polizia al mondo ha una capacità di controllo tale da chiudere davvero una città di quelle dimensioni?
In reazione a un lockdown imposto (dove possibile) dalle autorità nazionali per rallentare il contagio tra la popolazione, gente allo stremo potrebbe dare luogo a rivolte e saccheggi. Situazioni simili sono già state registrate a Nairobi, dove polizia e rivoltosi contrari a restare in casa (o impossibilitati a farlo) si affrontano quotidianamente per strada.
Come reagire alla crisi
Il medico congolese Denis Mukwege, premio Nobel per la pace nel 2019, riassume il dilemma così: «Temo l’ecatombe perché non abbiamo i mezzi per combattere il virus e perché gli africani sono costretti a uscire di casa per procurarsi il cibo. Nessun isolamento è dunque possibile e il Covid-19 si sta diffondendo a velocità record». Il crollo verticale del comparto turistico in Paesi come il Kenya o il Sudafrica, dove costituisce una fonte di reddito importante per decine di migliaia di lavoratori, il brusco calo dei prezzi delle materie prime dovuto alla minore domanda dei mercati europei e asiatici, la riduzione delle entrate fiscali per gli Stati… Si troverà costretta, l’Africa, a scegliere tra la salute dei suoi cittadini e la tenuta sociale ed economica delle sue popolazioni?
(Roberto Morel)