Diversi Paesi africani hanno iniziato a prendere le prime contromisure per prepararsi all’arrivo del Covid-19. Anche alla luce delle epidemie passate è opinione comune che le strategie di contenimento tradizionali non potranno avere effetti soddisfacenti in buona parte degli Stati del continente.
Da molte parti si tende a concentrare l’attenzione sulle aree rurali, cronicamente isolate e con un limitato accesso ai servizi sanitari, tuttavia gli osservati speciali sono indubbiamente i centri urbani. Caotiche, affollate, alle prese con una sempre maggiore assenza di servizi essenziali, molte città africane sembrano rappresentare la “tempesta perfetta” per la diffusione di grandi epidemie. Infatti, le contromisure attualmente prese in Cina e in Europa, basate sulla quarantena forzata della popolazione nelle proprie case, la limitazione del commercio e il controllo più o meno spinto di chi esce di casa per alcune minime esigenze imprescindibili non possono essere applicate in molte città dell’Africa subsahariana. Come fronteggiare il problema dal punto di vista del contenimento nelle aree urbane?
Se i sempre più numerosi appartenenti alla middle class avrebbero la possibilità di affrontare una quarantena, la maggioranza dei residenti nelle aree urbane appartiene ancora a fasce sociali medio-basse, con scarsa disponibilità economica e impegnati in attività di sussistenza legate al settore informale. Costringere in casa queste persone sarebbe impossibile: innanzitutto perché la loro sopravvivenza è indissolubilmente legata allo “sbarcare il lunario” giorno per giorno, in secondo luogo perché per moltissimi di loro le case sono condivise con altri affittuari e dunque sovraffollate. Spesso persone anche estranee convivono in una stessa stanza.
In passato alcuni Paesi hanno tentato la via dell’isolamento forzato di alcuni quartieri o insediamenti informali arrivando persino a schierare l’esercito, una scelta infausta (oltre che potenzialmente criminale) che rischia, tra l’altro, di provocare rivolte e sommosse, situazioni ideali per un aggravamento del contagio. Non solo: quella della militarizzazione e dell’isolamento di alcune parti della città è una soluzione impossibile dal momento che le città, e ancor di più le città africane, sono organismi estremamente complessi e correlati. I residenti negli slum e nei quartieri informali non sono infatti reietti isolati in un ghetto come si potrebbe pensare, ma rappresentano spesso una grande percentuale di coloro che fanno “funzionare” una città: piccoli commercianti, trasportatori, intermediari, operai ma anche funzionari statali o impiegati. Pensare di rimuoverli, o anche solo di isolarli a forza, metterebbe in ginocchio l’intero sistema urbano in pochissime ore.
Per moltissime persone, inoltre, procurarsi scorte di viveri è impensabile, sia per la mancanza di denaro sia per l’ancora scarsa diffusione di frigoriferi o comunque di spazi adatti a conservare provviste a lungo. I mercati possono indubbiamente essere luoghi a fortissimo rischio in cui centinaia di persone entrano quotidianamente a stretto contatto, ma la loro chiusura non è ipotizzabile; anche la regolamentazione e la riduzione degli orari di apertura, opzioni praticate da alcuni Paesi, rischia di sortire l’effetto opposto, creando ancora più affollamento. L’elenco di controindicazioni potrebbe allungarsi e porta molti a pensare che la guerra alla pandemia nel continente africano sia già persa in partenza. Eppure non è necessariamente così: se le contromisure tradizionali non sono applicabili o in alcuni casi sarebbero addirittura controproducenti, possono essere messi in campo sistemi e metodi alternativi.
Ci sono paesi come la Liberia, il Congo o la Guinea che hanno una storia recente di epidemie e di conseguenza una maggior sensibilità al tema da parte della popolazione oltre a una serie di “strutture” già rodate. La sola Sierra Leone, ad esempio, durante la recente epidemia di ebola ha impiegato ben 28.500 volontari e funzionari per realizzare campagne di sensibilizzazione porta a porta. Un esercito già rodato che potrebbe rivelarsi utilissimo. Le esperienze precedenti di contenimento di epidemie nel continente africano insegnano infatti che le parole chiave sono due: informazione e formazione. La natura dei luoghi ha un ruolo importante nel favorire o meno la diffusione del contagio, ma la vera differenza è indubbiamente data da un corretto comportamento individuale e collettivo. Lo viviamo sulla nostra pelle in questi giorni difficili.
Ebbene, da questo punto di vista, diverse città africane possono sorprendentemente rivelarsi ben più efficienti del previsto. Molti programmi che hanno contrastato con successo il diffondersi dell’epidemia di ebola hanno valorizzato i legami comunitari esistenti in alcuni quartieri e la funzione di “controllo sociale” che la comunità può esercitare sui singoli. Là dove l’esercito nelle strade rischia di non sortire effetti, sono i cittadini stessi che possono assumere un ruolo fondamentale di promozione dei comportamenti corretti e di dissuasione da atteggiamenti pericolosi. Non solo, la rete di legami in determinate comunità in cui tutti conoscono tutti è un aiuto fondamentale nel ricostruire rapidamente spostamenti e contatti delle persone infette in modo da poter isolare per tempo un potenziale focolaio.
Non mancano infine gli esempi di creatività e le buone pratiche da diffondere per risolvere problemi basilari e apparentemente insormontabili. Lavarsi le mani spesso quando pochissime case hanno l’acqua corrente e quando in generale l’acqua è un bene prezioso e raro, è una chimera. Esiste però una soluzione efficace e semplice “made in Africa”: il cosiddetto Veronica Bucket, ideato dalla ricercatrice ghanese Veronica Bekoe, è un semplicissimo secchio con un rubinetto nella parte bassa e un catino. Durante le epidemie di ebola è stato distribuito ovunque, come tappa obbligatoria davanti a uffici o negozi ma anche agli incroci delle strade o nei mercati. Unito a una corretta informazione, il Veronica Bucket permette a tantissime persone di lavarsi le mani con frequenza evitando anche grossi sprechi di acqua.
Insomma, in un contesto complesso in cui tutte le strategie di contenimento fino ad ora sperimentate sembrano vacillare, non tutto è perduto: il forte senso di comunità e la capacità creativa di trovare soluzioni efficaci e fattibili a problemi quotidiani possono fare la differenza. Tutto starà nell’attivare per tempo (e cioè già da ora) il maggior numero possibile di azioni preventive.
Federico Monica è architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Da oltre dieci anni si occupa di slum, insediamenti informali e sviluppo urbano in Africa subsahariana. È il fondatore di Taxibrousse, studio di progettazione di architettura, ingegneria e salvaguardia ambientale per la Cooperazione internazionale.