L’Africa si mobilita. La sua società civile sta cercando di far fronte, con la sua creatività, all’emergenza coronavirus. C’è chi cuce mascherine fatte in casa, chi distribuisce cibo, chi si inventa, addirittura, un respiratore polmonare. Insomma nessuno si rassegna. Ognuno cerca di dare un contributo pratico affinché l’impatto dell’epidemia non sia drammatico soprattutto dal punto di vista sociale. In questo tempo di lockdown-non lockdown la gente si sta attrezzando. È evidente che in una società spesso legata al lavoro informale è difficile che si riescano ad applicare le norme di distanziamento sociale. Molta parte della popolazione vive di ciò che guadagna giornalmente, magari vendendo cibo a margine delle strade e per le vie dei quartieri poveri. Così come è impensabile che si possa restare in “casa”, spesso baracche di pochi metri quadrati in cui vivono fino a dieci persone. L’impatto sociale, oltre a quello sanitario, rischia di essere ancora più drammatico. Ed è anche per questo che gli Stati si dovrebbero attrezzare affinché possano arrivare i generi di prima necessità alla gente più bisognosa, quella che vive con meno di due dollari al giorno, che rappresenta oltre il 40 per cento della popolazione dell’Africa subsahariana.
I due inventori del Kenya
In Kenya, per esempio, due giovani della città di Thika, non molto distante dalla capitale Nairobi, hanno creato un respiratore polmonare per l’emergenza epidemia. Come ci racconta il portale degli italiani in Kenya, Paul Kariuki e Samuel Kairu – questi i nomi dei due giovani, non certo scienziati o ingegneri – hanno impiegato quattro giorni per creare qualcosa che potrebbe essere una risorsa vitale per un Paese alle prese con la crescita esponenziale di casi di positività al coronavirus e con la difficoltà di reperire sul mercato mondiale respiratori di ogni tipo. I due keniani hanno assemblato il ventilatore dopo aver raccolto 98mila scellini (meno di 1000 euro) e averne risparmiati 12mila per poter collaudare il prototipo. Dopo il via libera, potranno raccogliere altri fondi per iniziare la stampa in 3D per fabbricarne più esemplari.
Certo, la burocrazia e la scienza potrà allungare i tempi, dovendo stabilire la bontà dell’applicazione pratica sui pazienti affetti da sindromi respiratorie, ma un buon passo è stato compiuto da due giovani intraprendenti. Paul ha raccontato ai media che è stata proprio la carenza di ventilatori a spingerli a proporre l’innovazione: «Nella lotta contro il Covid-19, dobbiamo essere inventivi perché attualmente il mondo sta affrontando una carenza di ventilatori – ha detto –. Prima di essere sopraffatti dal virus, dobbiamo realizzare dei ventilatori, quindi questo è il primo ventilatore assemblato localmente». I due, per realizzare il ventilatore, alimentato da una batteria e quindi fruibile in tutto il Paese, hanno utilizzato: un motore per tergicristalli, un relè, due interruttori, un pistone, un tubo a gomito, una lampadina, un sacchetto da aspirapolvere, un serbatoio e una batteria per auto. Insomma, chissà se avrà successo, ma certamente rappresenta la voglia di reagire, di farcela anche di fronte a un’emergenza così drammatica.
Prezioso fai da te
Se ci spostiamo dall’altra parte del continente, sulle rive dell’Oceano Atlantico, un esempio significativo ce lo offre in Costa d’Avorio la Comunità Abele, che opera a Grand-Bassam, l’antica capitale coloniale del Paese. La Comunità Abele non ha interrotto la sua attività, ma l’ha adeguata alle giuste restrizioni sulla socialità tra le persone. Quando si dice che la sanità in questi Paesi è fragile, è vero. Quando si dice che mancano anche i semplici mezzi di protezione, le mascherine, è vero. Quando si dice che manca persino l’acqua, figuriamoci il sapone, è vero. Allora la Comunità Abele cosa ha deciso di fare? Con i suoi giovani, le donne, che tutti i giorni frequentano la comunità, si è messa a cucire le mascherine, imparando da un ente di Grenoble attraverso la rete come si fa, e a preparare il sapone. Materiali da mettere a disposizione della popolazione. Le attività normali sono state convertite all’emergenza. Ivoriani che si mettono a disposizione degli ivoriani. Sono state messe in campo azioni di sensibilizzazione verso la popolazione, attraverso presidi informativi e fontane per il lavaggio delle mani, più che mai preziose in questi momenti. E la Comunità Abele, nel caso in cui la situazione peggiorasse rapidamente, metterà alcuni spazi a disposizione di chi potrebbe essere colpito dall’emergenza. Il loro motto – scrivono in un post su Facebook – recita “vicino ai più deboli”: a un metro dunque, non a un chilometro.
Cibo per chi ha bisogno
Per tornare sulle rive dell’Oceano Indiano, sempre in Kenya la onlus Karibuni sarà uno dei centri di distribuzione di cibo per centinaia di famiglie grazie alla farm e agli allevamenti di polli. Le serre hanno tanta verdura pronta – scrivono in un post su Facebook –, ogni giorno ci saranno più di 1000 uova da distribuire ed è stato già programmato l’acquisto periodico di camion di farina e fagioli. E poi si sono messi a produrre mascherine attraverso una cooperativa di donne (più di 250 pezzi al giorno), e ogni donna viene pagata per la produzione giornaliera.
Tornando sull’Atlantico, in Costa d’Avorio molte persone si sono trovate d’improvviso in una situazione di precarietà e senza la possibilità di rifornirsi dei beni di prima necessità. Così la Comunità Abele ha deciso di intervenire e distribuire ai più deboli un “kit alimentare” del valore di 15mila franchi Cfa (circa 23 euro) grazie alle donazioni: uno standard, per adulti, composto da riso, olio, candeggina e mascherine, e uno più adatto ai bisogni nutritivi dei bambini. Anche il Comune di Grand-Bassam ha messo a disposizione kit alimentari. La Comunità Abele insieme all’Associazione dei giovani lavoratori ha redatto una lista di persone, quelle più bisognose di aiuti. Due Paesi africani, due esempi che mostrano la solidarietà che nasce dal basso e la creatività che si esprime anche dal punto di vista tecnologico, per non farsi sopraffare dall’epidemia.
(Angelo Ferrari)