Di Tommaso Meo
Rendere Freetown la città degli alberi, combattendo i rischi climatici, creando lavoro e generando benefici a cascata per l’ambiente e i cittadini. Questo l’obiettivo del progetto FreetownTheTreeTown che la capitale della Sierra Leone porta avanti dal 2020 per risolvere diversi problemi che la affliggono da anni a causa dalla grande crescita della popolazione e dalla rapida e incontrollata urbanizzazione. Una storia ambiziosa, ma replicabile, che potrebbe fare da modello a molte altre città in Africa e non solo. Ne parla con Africa Rivista Eric Hubbard, Technical director del progetto, che parteciperà martedì 27 giugno a Milano all’Innovation Open Day di Fondazione Cariplo e Fondazione Compagnia di San Paolo, testimoniando questa esperienza.
“Freetown è una città progettata per 400.000 persone. Al momento ha 1,5 milioni di abitanti. Entro il 2030 – forse prima – ce ne saranno 2 milioni”, racconta Hubbard. Questa crescita demografica è coincisa con una massiccia deforestazione, per fare spazio alle case o servirsi del legno delle piante, con una conseguente perdita di biodiversità. “Dal 2011 la città ha perso 555 ettari di terreni incolti – o più di 500.000 alberi – ogni anno”. Senza alberi a fare da filtri e argini, la maggiore città del Paese, e la più densamente popolata dell’Africa occidentale, è diventata anche più vulnerabile agli eventi climatici estremi. Freetown è stata più volte vittima alluvioni e smottamenti e negli ultimi tempi. In un caso, nel 2017, le frane provocate dalle forti piogge hanno causato quasi 1.000 vittime.
FreetownTheTreeTown, spiega Hubbard, fa parte di un piano d’azione quinquennale messo in campo dalla sindaca di Freetown, Yvonne Aki-Sawyerr, pensato per le comunità più vulnerabili ai cambiamenti climatici e co-progettato con loro. “La città doveva agire, doveva fare qualcosa per invertire il trend e ridurre il livello di rischio climatico e ha pensato di farlo insieme alle comunità e a loro beneficio”. Per questo, per prima cosa, sono state individuate le zone più sensibili e le comunità più a rischio dove intervenire. Quella messa poi a punto è stata una soluzione di “adattamento con benefici collaterali di mitigazione”, continua Hubbard: adeguarsi al mutare del clima tramite nuove piante – o infrastrutture ecologiche, come le chiama l’esperto – e ridurre allo stesso tempo i livelli di emissioni di CO2. L’obiettivo iniziale era piantare un milione di alberi entro la fine del 2022 con il proposito ambizioso di aumentare la copertura vegetale della città del 50%. “Intendiamoci” precisa Hubbard “per arrivarci serve più di un milione di alberi”. Per questo il traguardo è presto salito a 7 milioni di alberi in più entro il 2030 e 20 milioni di alberi entro il 2050. Di pari passo il progetto segue l’obiettivo di ridurre del 14% le emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e del 45% entro il 2050 perché i tecnici locali hanno stimato che il 40% delle emissioni cittadine è in qualche modo legato al modo in cui le persone cucinano utilizzando il legno.
La cifra caratteristica del progetto è però quella di essere interamente gestito dalla cittadinanza, che ne trae beneficio in diversi modi. All’interno di una comunità sono i membri stessi a decidere in che luoghi piantare gli alberi dopo un lavoro di valutazione, ma non finisce qui: alle persone è affidato il compito di monitorare e far crescere queste piante e per questo sono ricompensate un pagamento di 120 dollari tramite smartphone dopo ogni verifica trimestrale. “Stiamo pagando i membri della comunità per coltivare alberi all’interno di un percorso di rivalutazione”, spiega il direttore del progetto. “Le persone avevano bisogno di trovare più valore negli alberi e nella natura che così diventa un motore di sostentamento”. E poi ci sono i co-benefici di quella che è a tutti gli effetti una forma di microcredito “come essere in grado di pagare la scuola, fare scelte abitative migliori, condurre la propria attività”. Inoltre “quegli alberi e le risorse da loro provenienti ora fanno parte di quella comunità, è quasi impossibile che gli alberi vengano eliminati”.
Ma come si finanzia un progetto di questo tipo in Africa? “Per avviarlo abbiamo ottenuto un finanziamento dalla Banca Mondiale di 1,8 milioni di dollari e un altro tramite la Bloomberg Global Mayors Challenge di un milione”, dice Hubbard. Come per magia, per le spese vive ci pensano gli stessi alberi. Ogni albero è infatti verificato tramite una piattaforma digitale che lo trasforma in un token – un gettone – di impatto. “Il token” spiega ancora Hubbard “consente di monetizzare la pianta nel mercato privato del carbonio o nel mercato volontario del carbonio, in un ciclo continuo di risorse aggiuntive che possiamo far circolare nuovamente nel processo di crescita”. Nei primi due anni dal suo lancio nel gennaio 2020, 560.000 alberi sono stati piantati, tracciati digitalmente e “tokenizzati”, con 578 ettari di terreno urbano dentro e intorno a Freetown ripristinati.
Questo circolo virtuoso non è stato costruito nello specifico su Freetown, ci tiene a precisare Hubbard. “In realtà è uno schema per le città con poche risorse in tutto il mondo e in particolare in Africa per valorizzare il loro capitale naturale e costruire una strategia di investimento basata su quello”. Il Technical director del progetto lo ritiene infatti altamente replicabile oltre che scalabile e afferma che i discorsi sono già avviati con diverse città del Sud globale. Da Milano, la prossima settimana, Hubbard si rivolgerà a possibili partner e beneficiari in Africa e in tutto il mondo per far conoscere questo tipo di modello di economia verde circolare. “Questa è giustizia climatica. Si tratta di costruire comunità, infrastrutture, processi e relazioni resilienti. Tutto questo è possibile ed è di questo che voglio parlare”.