Sulle colline della Sierra Leone cresce spontaneamente una pregiatissima qualità di caffè. Ma nessuno aveva mai pensato di trasformare quei chicchi in una bevanda per il mercato locale. Finché una studentessa tenace e temeraria…
Il primo appuntamento è saltato per motivi di studio. «La prego di scusarmi, devo finire di preparare l’esame di marketing», si è giustificata al telefono. Pochi giorni dopo, incontro Hannah Tarawally, 23 anni, nel suo laboratorio di Wilkinson Road, nel cuore vecchio di Freetown, a pochi passi dalla lunga spiaggia di Lumley. È radiosa. «È andata bene – mi dice con gli occhi che brillano –. Un altro passo nella giusta direzione». La giusta direzione è la laurea in economia e commercio. «Non vedo l’ora di mettere in pratica quel che sto imparando».
La ragazza è sveglia, intraprendente, ambiziosa. Orfana di padre in un Paese povero e travagliato, ha dovuto ben presto rimboccarsi le maniche. Due anni fa, per pagarsi gli studi, ha avviato una piccola attività che oggi le sta dando grandi soddisfazioni: “Hannah Coffee”. «Sono la prima produttrice di caffè della Sierra Leone – dice con una punta di orgoglio –. Adoro questa bevanda, il suo aroma intenso. Me ne sono innamorata nell’istante in cui l’ho assaggiata la prima volta in casa di un amico europeo».
Risorsa potenziale
Il caffè – come bevanda e come pianta – non è molto diffuso da queste parti. La Sierra Leone vanterebbe condizioni ottimali: clima tropicale e terreno fertile; ma gran parte delle piantagioni avviate all’inizio del secolo scorso (nelle regioni di Moyumba, Bo, Kenema, Pujuhem, Kono e Kailhahun) sono state abbandonate nel 1991 a causa della guerra civile. Dieci anni di violenze hanno spopolato villaggi e campagne. La produzione di caffè è crollata da quindicimila a duemila tonnellate l’anno. Benché dal 2002 il Paese goda di stabilità (ma ha dovuto fare i conti con l’emergenza ebola del 2014, terminata solo due anni fa), non c’è stato sviluppo per questo settore. Caucciù e olio di palma sono le uniche colture di rilievo dell’export. Eppure il caffè potrebbe essere una risorsa preziosa.
In Sierra Leone, oltre alle piante Robusta crescono spontaneamente alberi di una specie pregiata e rarissima: la Coffea stenophylla. «È una varietà quasi scomparsa perché considerata poco commerciale – spiegano gli esperti di Slow Food –. Richiede nove anni per giungere a maturità e fruttificare, due anni di più dell’Arabica e cinque di più della Robusta. I semi contengono zuccheri, grassi e, naturalmente, caffeina. Ben lavorati, danno vita a delicate fragranze fruttate e floreali».
Tutto a mano
Hannah acquista il caffè – rigorosamente biologico – dai piccoli raccoglitori della regione del Kono, che salgono a 400-700 metri di altitudine e penetrano nella foresta pluviale per raccogliere a mano i pregiati grani. I frutti maturi sono essiccati al sole per due-tre settimane prima di essere scorticati. A Freetown, Hannah provvede alle fasi di tostatura e macinazione. Tutto avviene manualmente, nel retro del suo ufficio, con macchinari artigianali. I chicchi vengono anzitutto versati in un cilindro metallico che, per mezzo di un’asta, viene fatto ruotare sul fuoco per 15-20 minuti. «Il caffè deve essere cullato delicatamente sul calore affinché ogni chicco sia tostato in modo perfetto e omogeneo. Solo così tutte le sue qualità organolettiche possono mantenersi inalterate e sprigionarsi pienamente al momento della degustazione». Poco alla volta i morbidi grani si trasformano in chicchi friabili, leggeri, bruni e profumati. «La torrefazione ha un ruolo fondamentale nel determinare la qualità della bevanda ottenuta», ricorda Hannah.
Un sogno ambizioso
«Raggiunto il grado di tostatura ottimale, il caffè deve essere raffreddato per evitare che la combustione continui». Questo processo avviene all’aria aperta, stendendo i chicchi su una stoffa che assorbe le residue tracce di umidità e preserva gli aromi migliori. Infine, la macinatura e il confezionamento in buste, sempre a mano: Hannah prepara uno ad uno i profumati pacchetti che verranno venduti a Freetown. «Al momento la rete di distribuzione è limitata a qualche supermercato e hotel frequentato soprattutto da occidentali – chiarisce la giovane imprenditrice –. I costi di spedizione all’estero mi impediscono di sviluppare l’e-commerce, ma la vera scommessa è il mercato locale, far scoprire alla mia gente il delizioso gusto del nostro caffè».
Hannah sogna di aprire una caffetteria. «Un luogo di ritrovo giovanile dove sorseggiare caffè di qualità, qualcosa di alternativo al modello Starbucks che sta dilagando in Africa… Lo so: sono una donna, sola, contro un colosso americano. Ma ce la metterò tutta». È solo questione di tempo, ce la farà. Se passate da Freetown, non mancate di farle visita.
(Marco Trovato)