Rosemary sta in fila, in attesa di farsi misurare la temperatura corporea prima di iniziare il turno. Indossa una mascherina, alla quale, non appena sarà entrata nel capannone in riva al Lago Naivasha, aggiungerà una protezione trasparente sul volto. Ma la giovane keniana tira un sospiro di sollievo: insieme a migliaia di dipendenti della filiera floricola, può finalmente tornare al lavoro, dopo il periodo di chiusura forzata dalla pandemia di covid-19.
Quarto esportatore mondiale di fiori recisi nel 2019, il Kenya vende soprattutto in Europa. Il lockdown, imposto per contrastare la propagazione del nuovo coronavirus, ha avuto l’effetto di un terremoto per le flower farms, non solo dell’Africa, ma del mondo intero. Soltanto in Kenya, che con l’Etiopia, quinto esportatore mondiale, si divide il primato continentale, si stima che la crisi abbia colpito 100.000 lavoratori, costretti al riposo forzato, per almeno tre mesi, senza stipendio. Presso la Oserian Ltd, una delle aziende leader, l’atmosfera è tesa nonostante l’ottimismo della ripartenza. I rappresentanti sindacali denunciano che 1.200 lavoratori sono stati licenziati e che la ditta intenda avvalersi di nuove leve, pagate di meno.
Secondo Clement Tulezi, dirigente del Kenya flower council, le esportazioni di fiori verso l’Europa sono riprese al 60%. Dalla Royal flora Holland, principale piazza commerciale della filiera dei fiori, si apprende che nella settimana dell’11 maggio le compravendite hanno raggiunto 113 milioni di euro, soltanto il 6,9% in meno rispetto allo stesso periodo nel 2019.
L’esempio del comparto floricolo è paradigmatica di quanto le economie dei vari continenti siano interconnesse. Come in un domino, la caduta di un mattoncino più buttar giù tutto il resto. Guardando all’Africa, il dato è emerso chiaramente nel settore estrattivo, soprattutto per gli idrocarburi, ma numerosi altri rami produttivi e commerciali stanno soffrendo.
In Costa d’Avorio, i produttori di anacardi e di cotone si aspettano una perdita d’introiti derivanti dall’esportazione di 410 milioni di dollari. Al calo della domanda si è agganciata una svalutazione dei contratti già negoziati. Nel caso delle nocciole di anacardi, vendute dal primo produttore mondiale soprattutto al Vietnam e all’India, la tariffa a tonnellata è scesa da 1.400 a 900 dollari. Nel caso del cotone, il prezzo è crollato da 1,65 a un dollaro al chilo.
In Guinea, il coronavirus ha tagliato le ali alla filiera della patata, in piena espansione. Circa 20.000 tonnellate coltivate all’anno, di cui metà per saziare la domanda nazionale e l’altra metà destinata ad altri Paesi africani. Quest’anno, almeno 5.000 tonnellate sono già marcite o germogliate sin dall’avvio del raccolto a febbraio.
Turismo e hospitality in Egitto, automotive in Marocco, cinema e spettacoli in Nigeria, sono altri esempi di settori di punta afflitti da perdite importanti. Nei corridoi di Nollywood, la più grande industria africana dell’entertainment in Nigeria, si stima che la chiusura sia costata più di otto milioni di dollari e abbia colpito 250.000 persone. Se le sale di cinema sono ancora chiuse, sono ricominciate a metà maggio ad Abuja le riprese per la serie tivù “Meadows”, una novità 2020 della Fedma Films Studio. Per la troupe, obbligo di mascherine, termometri e distanze minime.
Un comparto, infine, accomuna più o meno tutti i Paesi del continente: quello dell’economia informale, che secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) riguarda l’85,8% dei lavoratori africani. Una stragrande maggioranza di essi è, di fatto, esclusa da ogni sostegno ufficiale governativo, imprenditoriale o previdenziale.
(Céline Camoin)