«La cité dans le jour bleu», è l’omaggio di Simon Njami, direttore artistico di Dak’Art 2016 (3 maggio – 2 giugno) all’utopia poetica-politica di Léopold Sédar Senghor, il primo presidente senegalese, che sognava un’Africa libera. La citazione spicca sulla facciata dell’Ancien Palais de Justice, che ospita «Réenchantement», la principale esposizione della Biennale, 66 artisti e 7 progetti speciali, per inventare nuove strategie artistiche che riescano a «re-incantare» il mondo e il continente.
Un Palazzo di giustizia in disuso è una location suggestiva e piena di memoria, perfetta scenografia per due installazioni site specific (cioè pensate e inserite in un preciso luogo) più interessanti di questa esposizione, due opere speculari che riflettono su Potere e Rivoluzione.
«P (resident), Ceci n’est pas une Phenix, Père de la Nation», di Maurice Monteiro, belga-beninese residente a Dakar, fonde con geniale intuizione le pareti scrostate di una aula di giustizia con una rappresentazione graffiante della tragicomica autocelebrazione dei cosiddetti Padri della Nazione. Al centro della stanza, un trono vuoto, in puro stile imperiale, dal quale si diffondono gli altisonanti discorsi di dittatori del Continente, su tutti Bokassa, Imperatore del Centrafrica. Alle pareti, grandi ritratti fotografici celebrano con ironia le variazioni sul tema («Le Président Fondateur», «Le Guide Suprême», «Le Père de la Nation», «Le Grand Timonier») mentre delle scritte spray rosso e blu, ricordano le recenti rivoluzioni, da «Y’en a marre» in Senegal, alla rivoluzione in Burkina Faso, che hanno dimostrato come il logoro potere possa essere spazzato via da proteste popolari che prendono in prestito idee ed energie da movimenti urbani e globalizzati come il rap e l’hip hop.
La Rivoluzione è invece il cuore dell’installazione del camerunese Bili Bidjocka che, in una stanza attigua, allestisce come in un set una «scena da una Rivoluzione» che ricorda le immagini dell’assalto all’Assemblea nazionale riprese nel documentario «Une Revolution Africaine. Les dix jours qui ont Fait chuter Blaise Campaore». Il pavimento, coperto di terra, ricorda che per ricostruire bisogna distruggere mentre le frasi incastonate nei mosaici delle pareti reinterpretano la pratica della scrittura automatica surrealista che rivendicava un’arte rivoluzionaria e irriverente.E intorno allo slogan «revolution», in ordine sparso, un ironico mix di concetti e parole in libertà: CECINESTPASMONCORPSVOUSNEPOUVEZPASLESCONSOMMER,
ACCUMULATIONDESCORPSFETICHES, #MAKEUSPOORTHENSHOOTUS, KAPITALISME, TIERSMOND…
Echi delle Rivoluzioni arabe si ritrovano nell’installazione «Les Rhizomes infinies de la revolution» dell’algerino Kader Attia che ci introduce con una rassegna stampa Internet su Intifada e Siria in una foresta di alberi di ferro che ricordano tumuli funerari e nei quadri collage «J’ai tenue parole» della tunisina Yesmine Ben Khelill.
Ma la disillusione della rivoluzione porta a un’altra utopia, la «Partenza verso l’Occidente», ben rappresentata dall’installazione di Alexis Peskine, che utilizza oggetti simbolici del viaggio come la Tour Eiffel, le borse dei migranti e le pirogues per una libera interpretazione video della «Zattera della Medusa», accompagnata da fotografie e sculture. Una mitologia del viaggio della speranza che prende sembianze pop.
Arte engagée e popolare, quindi, che, come dichiarato dallo stesso curatore, ambisce a distruggere l’ultimo baluardo del colonialismo: il mondo dell’arte contemporanea.
Simona Cella