Dal Festival di Cannes, un film di denuncia

di claudia
Tori e Lokita

di Annamaria Gallone

Il Premio speciale della 75ma edizione del Festival di Cannes è andato a TORI E LOKITA, dodicesimo film dei fratelli Jean-Pierre e Luc DARDENNE, ormai frequentatori abituali del Festival dove presentano puntualmente un cinema realista di qualità, con uno stile asciutto e inconfondibile: storie delicate e ricche di umanità, di attenzione di chi vive ai margini, nelle quali l’Africa è sempre presente.

Anche i protagonisti che danno il titolo a questo loro ultimo film sono africani: Lokita (un’intensa Nadège Ouedraogo) è originaria del Camerun, ha 16 anni ed è disperatamente alla ricerca di un permesso di soggiorno. Tori (un fantastico Pablo Schils) ha 12 anni, è fuggito dal Benin, vittima di persecuzioni dettate da una tradizione crudele. Entrambi sono riusciti a emigrare in una cittadina belga simile a tante altre d’Europa. Li lega un’amicizia profonda e fingono di essere fratelli per stare insieme e difendersi dal mondo. La ragazzina è costantemente angosciata e in preda a crisi di panico perché, torturata dalla setta che l’ha aiutata ad entrare in Europa e dalla madre rimasta in Africa che le chiedono continuamente denaro, deve sottostare alle imposizioni e agli abusi sessuali del suo capo, che la coinvolge insieme al fratellino nel traffico di stupefacenti. Tori, dal canto suo, è più incosciente e astuto: affronta tutte le sfide pedalando notte e giorno per la città. Non sappiamo delle difficoltà che hanno avuto per arrivare in Belgio dall’Africa, sappiamo solo che Tori stava per morire e che Lokita gli ha salvato la vita. Da allora sono una cosa sola e si difendono a vicenda, creature invisibili al mondo benestante. L’unico momento bello è quello della dolce ninna-nanna africana che Tokita canta quando possono dormire accanto si aggrappano a vicenda e si aiutano a sopravvivere.  Il legame che li unisce va molto al di là di quello di sangue. Il loro quotidiano sfocia talvolta nell’intransigenza della polizia o nel controllo severo e diffidente da parte delle strutture sociali.

Una sequenza di tenerezza infinita è quella in cui i “fratelli” si esibiscono cantando in un ristorante “Alla fiera dell’Est “in cambio di qualche spicciolo. Penso che i fratelli Dardenne non abbiano scelto a caso questa canzone in cui ciascuno divora il più piccolo…  Ma ben presto la storia si trasforma in un thriller e la vicenda si fa sempre più difficile e avventurosa, ma non voglio anticiparvi troppo.

I due registi seguono da anni le orme della scuola del cinema ereditata dal neorealismo francese e dalla visione proletaria di Kenneth Loach: la loro storia semplice non ha nulla di didascalico o di pietistico, perché  in chiave poetica denuncia la situazione degli schiavi invisibili che vivono ai margini del nostro sguardo, non limitandosi a un racconto di cronaca che purtroppo si ripete frequentemente, raccontando una storia universale.                

“Non che la loro situazione sia irrilevante. Al contrario, la loro situazione di adolescenti esiliati, solitari, sfruttati e umiliati acquisisce una nuova dimensione grazie alla loro amicizia. Il nostro film è anche una denuncia della situazione violenta e ingiusta che questi giovani in esilio vivono nel nostro Paese, in Europa” spiegano i Dardenne.

Una buona notizia: il film presto uscirà in sala: non perdetelo.

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