Il supereroe nero sta dimostrando di essere ben più di un fenomeno passeggero. Campione di incassi, il film veicola un forte messaggio di riscatto. Ecco che cosa sta avvenendo negli Stati Uniti, dove anche le Chiese organizzano proiezioni del film “africano” della Marvel.
Lo ha fatto la Chiesa di Cristo Trinità di Chicago. Lo ha fatto anche la Chiesa Battista della Virginia. E perfino a Memphis, presso la New Direction Christian Church, e a Los Angeles, presso la Hill City Church. Anche i pastori di tante altre Chiese hanno fatto questa proposta ai loro giovani, anche e soprattutto con le loro famiglie. Black Panther di Ryan Coogler, il primo film di supereroi neri, con un cast quasi interamente nero e la colonna sonora del rapper nero Kendrick Lamar, costituisce il più grande momento culturale, a oggi, del 2018. Negli Usa è un fenomeno globale. Un film visto da milioni di persone: bianchi, latinos e african americans. Specialmente questi ultimi lo hanno accolto con entusiasmo e fatto conoscere. Molti, singoli e gruppi, sono tornati a vederlo più volte.
Il film non veicola un messaggio religioso esplicito, ma i pastori dicono che una storia di supereroi culturalmente positiva può essere di beneficio per i fedeli, specie african americans, e hanno affittato teatri e sale cinematografiche per le proiezioni.
«Questo è un modo diverso di pensare», ha detto il pastore Otis Moss III, afroamericano, della Trinity Church, che propone “cineforum spirituali”. La sua comunità ha acquistato 1200 biglietti per il film. «È importante per le famiglie vederlo assieme», sostiene. Alla Trinity Church stanno anche lavorando a una guida di studio del film.
«Le persone sono davvero entusiaste nel vedere che l’Africa non è il sempiterno continente povero, difficile, distruttivo e doloroso, ma che su di essa sono finalmente puntati degli occhi africani», aggiunge Moss. È un momento storico, a sentire anche le interviste degli attori che raccontano la lavorazione del film, e lo è anche da un punto di vista spirituale.
Contro ogni previsione, Black Panther ha superato e battuto record di biglietti staccati e di permanenza in sala. A più di quattro mesi dall’uscita, regge in maniera costante in moltissime sale.
Le Chiese nere hanno giocato un ruolo importante nel successo, anche economico, del film, Incoraggiando i fedeli a guardare il film indossando i loro migliori abiti africani, e accompagnando la visione con delle riflessioni.
«La nostra guida al film parlerà del vero Regno di Wakanda: l’antico Egitto e l’antica Etiopia, Timbuctu, il Grande Zimbabwe – spiega il pastore Moss –. Tutte queste incredibili nazioni africane non ci sono state insegnate a scuola, e nemmeno le origini africane del cristianesimo e dell’ebraismo, e la connessione con l’islam. Black Panther ci offre una leva per sollevare il coperchio del razzismo e del colonialismo».
Un altro pastore, John Wesley, afferma: «Se c’è qualcosa che vale la pena di vedere come comunità di fede, affittiamo un teatro – spiega Wesley –. Jesse Holland, autore del libro Black Panther, è un membro della nostra Chiesa e sarà con noi per dare il suo punto di vista».
Anche la ex first lady Michelle Obama ha elogiato il film, scrivendo su Twitter: «Congratulazioni a tutto il team di Black Panther! Grazie a voi, i giovani potranno finalmente vedere sul grande schermo supereroi simili a loro. Ho adorato il film e so che ispirerà persone di ogni estrazione a scavare in profondità e a trovare il coraggio di essere eroi della loro propria vita».
Non sorprende il sostegno di Michelle Obama. In un’intervista del 2016 a Variety, per esempio, aveva spiegato la necessità di introdurre la diversità nell’intrattenimento, visto il ruolo cruciale che esso svolge per i bambini. «Per tanti [bianchi], la televisione e i film possono essere l’unico modo per capire persone che non sono come loro e che provengono da famiglie istruite, che hanno valori, che si prendono cura dei figli – aveva detto Michelle Obama in quell’occasione –. Se non le vedono in tivù, oppure non vivono in comunità con persone [nere] come me, non sapranno mai chi noi siamo, e rimarranno in balia di ogni sorta di stereotipi e pregiudizi, semplicemente basati su quello che vedono nel televisore. Per questo è importante che il mondo veda immagini diverse, per tornare a sviluppare empatia e comprensione».
Anche Steven Spielberg si è espresso su Black Panther: «Il regista Ryan Coogler ha fatto un ottimo lavoro scrivendo e dirigendo un film che è probabilmente la pellicola di svolta culturale più grande dell’ultimo decennio. Cambierà realmente le cose. La sola idea che i ragazzini ora possano crescere dicendo “da grande voglio essere come Pantera Nera” è un fatto straordinario».
Spielberg aveva girato, nel 1985, Il colore viola, con un cast prevalentemente black, sul tema della schiavitù: «Il colore viola era troppo avanti per l’epoca in cui uscì. E io fui criticato per averlo girato perché non ero di colore. A quel tempo non capivo le critiche: oggi capisco».
Una semplice donna afroamericana, Gwendaline Smith, ha condiviso sui social ciò che per lei questa proiezione ha rappresentato: «Ho visto Black Panther con mio marito, che è il pastore della nostra Chiesa. Il film mi ha fatto sentire bene nella mia pelle scura; mio marito ha provato la stessa sensazione. Il nostro popolo ha sofferto il rifiuto a molti livelli, compreso quello di sentirsi figlio di un Dio minore. Sono cresciuta tra persone che credevano che i neri con la pelle più scura fossero inferiori non solo ai caucasici ma ai neri con la pelle più chiara. Ho fatto notare a un ex collega caucasico che noi nere siamo le uniche donne del pianeta costrette a vergognarsi dei propri capelli. Ce li stiriamo per sentirci socialmente accettabili. Un film come Black Panther ci voleva. Ho detto a mio marito che credo sia stato Dio a permetterlo. Io di solito non vado al cinema, ma questa volta sentivo che non potevo mancare. Questo film ha confortato molti e ci ha ridato orgoglio africano. Che Dio vi benedica».
John Stones, un giovane adulto afroamericano di Washington, con orgoglio dopo aver visto il film mi ha spiegato che «è un grande film. Mette in mostra l’afrofuturismo, l’ingegnosità nera, il potere delle famiglie nere, e un’adolescente (Shuri, interpretata da Letitia Wright) che mostra le potenzialità dei giovani. Lei è ingegnere, il più brillante scienziato al mondo. Anche il generale dell’esercito è una donna. È un film molto motivante e affirmative per le ragazze e le donne. Esso mostra anche la relazione, talvolta complicata, tra alcuni africani e alcuni afroamericani».
«L’industria cinematografica è profondamente razzista, strutturalmente razzista», ha dichiarato Rashad Robinson, direttore esecutivo di Color of Change, un’organizzazione per la giustizia razziale. Ha spesso giustificato la sottorappresentazione degli african americans asserendo che i film con cast neri al botteghino non vanno bene. Black Panther ha sconfessato questa tesi.
«Adesso le cose stanno cambiando – dice Robinson –. Black Panther rappresenta un percorso nuovo e vero, non solo un campanello d’allarme. Il film hollywoodiano a grande budget è uno degli ultimi luoghi in cui le persone di ogni classe sociale – e in qualche modo di ogni razza, ma sicuramente di ogni classe – ridono e si emozionano per la stessa cosa allo stesso tempo. Non andiamo più nelle stesse chiese, nelle stesse scuole… In qualche modo, le segregazioni che in questo Paese si perpetuano lungo le linee della classe e della razza rendono il cinema un luogo dove si possono costruire connessioni e un terreno comune».
Black Panther è anche uno dei film più intelligenti e politicamente fondati nel genere “supereroi” . Non tratta solo di astrazioni. I personaggi discutono direttamente di ingiustizie reali come il carcere “di massa” per le minoranze razziali, le crisi dei rifugiati, la povertà sistemica, il colonialismo e lo sfruttamento postcoloniale, e il razzismo in generale. E non è semplicemente un modo furbo di mostrare che un film di supereroi può essere d’attualità. Le motivazioni principali che muovono i personaggi sono radicate nella realtà di questi problemi.
Il conflitto centrale si gioca attorno al regno africano di Wakanda. Nonostante esso possieda una tecnologia di gran lunga superiore a ogni altra esistente sul pianeta, sceglie di isolarsi dalla comunità internazionale. Mentre un altro film avrebbe affrontato il tema sostenendo che l’isolazionismo è sbagliato, Black Panther riconosce che le alternative non sono necessariamente migliori. Erik Killmonger – che nel film è l’antagonista – potrebbe avere ragione quando sottolinea che l’isolazionismo del Wakanda ha condannato egoisticamente gli oppressi di tutto il mondo a un destino terribile. Allo stesso tempo, il film usa il personaggio di Killmonger per mostrare come coloro che desiderano liberare gli oppressi possano facilmente diventare a loro volta oppressori, se la loro “giusta ira” viene a corrompersi. L’isolazionismo del Wakanda può essere giustificato almeno come un tentativo di evitare proprio quel tipo di corruzione, oltre a proteggere i propri cittadini dalle depredazioni del mondo esterno e a mantenere l’autonomia del Paese.
Per capire quanto questo film sia diventato in pochi mesi un fenomeno economico, sociale, di pubblico – ma anche un’azione di rafforzamento dell’identità per le comunità african americans –, si vedano anche gli incassi: 696.186.611 dollari in Nord America, al 13 maggio, e 645.827.230 nel resto del mondo, per complessivi 1.342.013.841 di dollari, a fronte di una produzione costata 200 milioni.
Se Black Panther non fosse anche uno spettacolo godibile, non avrebbe funzionato. È un trionfo perché è un’esplosione di immagini da guardare, che riesce a raccontare una storia costruita, sì, a tavolino, ma che allo stesso tempo abbatte le barriere. Ma è ancora lungo, nel concreto, il cammino per una black identity contro il razzismo dilagante nel Paese…
Daniele Moschetti, missionario comboniano, vive tra New York e Washington, inserito nella rete di istituti missionari Vivat, attiva a favore della giustizia e della pace presso l’Onu e il Congresso americano, e nell’Africa Faith and Justice Network. In precedenza è vissuto vent’anni in Africa, a Nairobi (Kenya), nella baraccopoli di Korogocho, e poi in Sud Sudan, dove è stato anche responsabile del gruppo comboniano. È autore di alcuni libri, l’ultimo (2017) sul Sud Sudan.