“I Paesi in via di sviluppo sono in un certo senso rimasti delusi” dalle conclusioni della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Cop26, terminatasi di fatto sabato sera a Glasgow. Con queste parole Grammenos Mastrojeni, docente universitario e vicesegretario generale dell’Unione per il Mediterraneo (UpM), si è espresso circa le aspettative dei Paesi africani e non solo. Intervistato dalla rivista Africa al ritorno dal vertice, Mastrojeni ha però precisato che “siamo in via di definizione più che di definita” e che l’appuntamento fissato con Cop 27 a Sharm El Sheik il 7 novembre del 2022 è “fondamentale per sviluppare i numerosi segnali positivi raccolti dal vertice di quest’anno”.
Sabato sera i rappresentanti dei circa 200 Paesi presenti alla conferenza sul clima di Glasgow hanno raggiunto un accordo finale sugli impegni e le strategie condivise da applicare per contrastare il riscaldamento globale. Tra le ultime negoziazioni che hanno fatto ritardare la conclusione della conferenza ci sono state anche quelle sulla potenziale istituzione del fondo di 100 miliardi di dollari all’anno per compensare le nazioni più povere e vulnerabili che sono state danneggiate dagli effetti del cambiamento climatico. Alla fine, queste risoluzioni sono state rimandate a discussioni future.
Secondo Mastrojeni “la difficoltà non detta è che si cercava un meccanismo fino a un certo punto obbligatorio di compensazione. Solo che quando si dà la definizione giuridica a questo tipo di situazione si apre anche la porta a una litigiosità di tipo giuridico e questo ha lasciato molto perplesse diverse parti, oltre a rendere difficile il portare avanti il discorso solidale”.
Riguardo a una presunta mancanza di concretezza circa decisioni più favorevoli per l’Africa e per i Paesi in via di sviluppo lo studioso ha precisato che non è detto che sia mancata. Glasgow secondo Mastrojeni ha avuto “un timing un po’ sfortunato perché una cosa è la dinamica negoziale, un’altra è ciò che accade nel mondo reale dove si stanno verificando dinamiche promettenti: mentre prima si negoziava tra parti che volevano dei risultati sul cambiamento climatico e altre parti che non li consideravano prioritari, da Glasgow si è iniziato a ragionare in una prospettiva diversa”. Mastrojeni ha infatti precisato che “la tensione ora non è più tra il sì e il no ma è fra urgenza e complessità”. Un grande cambio di prospettiva secondo lo studioso che ha posto le basi per un cambio di rotta anche nella dinamica dei negoziati.
L’adattamento e il finanziamento sono state le due aspettative prioritarie dell’Africa alla Cop26, e su questi punti, piccoli, timidi, passi avanti sono stati compiuti, ritiene Nidhal Attia, attivista per l’ambiente tunisino, intervistato da InfoAfrica al ritorno dalla conferenza.
Il testo finale, ci ha riferito Attia, “riconosce la necessità di raddoppiare il finanziamento da parte dei Paesi sviluppati a favore dei Paesi in via di sviluppo, tra cui molti Paesi africani, che hanno bisogno di sostegno finanziario” per gestire gli impatti dei cambiamenti climatici. Attualmente, solo una minima parte dei finanziamenti per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici – il principale è il Fondo Verde per il clima – è dedicata all’Africa, continente che emette meno emissioni, ma subisce gli effetti peggiori. Questo, spiega Attia, è anche dovuto alla complessità del sistema, e all’incapacità per vari Paesi africani a poter redigere i bandi o sottoporre le candidature.
In Scozia, si è anche attirata l’attenzione sulla forma e la qualità dei finanziamenti per la lotta ai cambiamenti climatici, con l’amara constatazione che la maggior parte sono prestiti. “È un elemento che rischia di accrescere ulteriormente il debito dei Paesi africani”, sottolinea Attia, che alla Cop rappresentava la fondazione alla quale appartiene, la tedesca Heinrich Boll. Gli impatti dei cambiamenti climatici “sono valutati a 1,3 triliardi di dollari annualmente per il periodo post 2025. Una cifra che supera di gran lunga quello che si è potuto mobilitare o che si pensa di poter mobilitare”, fa notare l’attivista, che alla Cop26 appoggiava anche la delegazione tunisina su alcune questioni.
Le attese dei Paesi africani riguardavano soprattutto l’adattamento, “vale a dire la capacità a prepararsi con progetti per far fronte a conseguenze dei cambiamenti climatici come le inondazioni, l’erosione, l’aumento della temperatura o altre avversità climatiche”, ricorda Attia sottolineando che “questo deve necessariamente passare attraverso un finanziamento maggiore per riuscire a sviluppare tali progetti”. Se non sono emerse decisioni ben chiare in materia, è cresciuta la consapevolezza del ruolo cruciale dell’adattamento ai cambiamenti climatici.
Quanto all’impegno di eliminare progressivamente il ricorso alle fonti di energie fossili, questo ha conseguenze sull’Africa, perché “significa un cambio d’approccio nello sviluppo, che richiede energie più pulite”, alternative al carbone, al gas o al petrolio.
Altro punto incompiuto ma considerato un piccolo miglioramento, la questione delle perdite e dei danni (loss and damages) dopo una catastrofe naturale, come ad esempio il passaggio di un uragano. “Prevedere riduzioni di gas serra non basta, occorre intervenire sulla parte umanitaria. Alcuni passi avanti sono stati fatti su questo punto”, che si aggiunge all’attenuazione e all’adattamento. Della questione loss and damages si occupa soprattutto la Rete di Santiago (sotto gli auspici della United Nations Framework Convention on Climate Change).
Molto lavoro resta ancora da fare, ritiene Nidhal Attia, ma “la voce dell’Africa sarà ancora più forte l’anno prossimo, in terra africana, alla Cop27 in Egitto”.
(Céline Camoin, Valentina Giulia Milani)