I casi di coronavirus nel mondo sono ad oggi più di 3 milioni e mezzo. Nell’intera Africa, oltre 46mila, dove i morti sono circa 1900 contro gli oltre 255mila a livello globale. Un quadro non troppo allarmante per l’Africa – ma che potrebbe essere smentito in ogni momento. In ogni caso, dal punto di vista dell’economia, da quella familiare a quella macro, va già molto male.
Posto che in questa pandemia nulla o quasi possiamo dare, al momento, per definitivo, è lecito trarre già qualche insegnamento da come l’Africa reagisce? Forse almeno questi. Primo: il continente non appare più come il ricettacolo di ogni tenebra e malattia (malattie che “necessariamente” gli immigrati porterebbero a casa nostra). Poi: i governi hanno saputo dimostrare una prontezza forse inattesa fin dai primissimi casi, sia moltiplicando in poco tempo i laboratori per le appropriate analisi, sia adottando misure, sin troppo “europee”, di prevenzione – talune in realtà impraticabili alla lettera, prima fra tutte il distanziamento sociale. Impraticabili per motivi culturali, forse, ma innanzitutto abitativi o… di mera sopravvivenza.
Molti africani, benché informati, sembrano prendere la minaccia sotto gamba. Certo si lavano volentieri le mani e anche tutto il resto, se hanno acqua e sapone disponibili (lo fanno anche senza Covid), ma chiudersi in casa di giorno, no. Incoscienza? Spirito di sfida? Fatalismo? Pensiamo agli abitanti delle periferie, ormai metà della popolazione del continente: se ogni santa mattina non esci, la sera non mangi. È forse qui la chiave di quello che qualcuno, da lontano, chiama fatalismo. L’alternativa, alla fine, è tra morire di virus o morire di fame. La prima è una possibilità; la seconda, diventerebbe una certezza.
Di virus o di fame | editoriale Africa n°3-2020
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