Dibattito sullo spot di Save The Children

di AFRICA
Fame di spot - Editoriale rivista Africa 03_2015

Continua a far discutere la critica che la nostra rivista ha mosso alla famosa organizzazione internazionale, Save The Children. Ieri, mercoledì 6 maggio, il quotidiano La Stampa ha pubblicato una riflessione a cura di Fabrizio Floris, sociologo dell’Università degli Studi di Torino.

Se l’Africa ha fame le cause sono molte

Sta suscitando un ampio dibattito lo spot dell’organizzazione Save the children che ritrae un bambino africano con la pancia gonfia a cui si chiede di porre rimedio con una donazione. L’immagine, a memoria di tv, è così replicata da generare assuefazione: come un problema che non si può risolvere. L’effetto è la chiusura: quelle immagini spengono ogni sussulto interiore perché «l’Africa avrà sempre fame». Si dimentica che la fame ha cause legate alla iniqua distribuzione delle terre fertili, alla mancanza d’acqua, al cambiamento climatico, alle guerre, alle dittature che usano gli aiuti in cambio di consenso, alla scarsa produttività agricola e zootecnica: la pancia gonfia è l’effetto, per affrontare le cause non servono distrazioni pubblicitarie, ma sarei contento di sbagliarmi.
Fabrizio Floris

Anche Redattore sociale il 29 aprile aveva ripreso l’editoriale e interpellato Daniele Timarco, direttore dei programmi internazionali di Save the Children Italia, per una replica

Il dibattito sullo spot di Save the Children, lo ricordiamo, è stato innescato dell’editoriale, a firma di Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, dell’ultimo numero della rivista Africa, che qui vi riproponiamo.

Fame di spot - Editoriale rivista Africa 03_2015

Fame di spot – editoriale Africa n°3-2015

Un bimbo africano denutrito, l’aria sofferente, il respiro visibilmente ansimante. Una voce fuoricampo ci informa che si chiama John e che ha solo due anni. La telecamera indugia sul suo stomaco gonfio, prima di riprendere altri bimbi, messi anche peggio di lui: costole a vista, visi-teschio, sguardi disperati… Immagini strazianti che durano un’eternità. Speravamo che questa campagna di spot iniziata nel 2013 fosse a breve termine. Invece, dopo Koffi e Aisha, dopo Bishara e Kayembe, adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese. Una delle più storiche organizzazioni non governative non ha trovato di meglio, a quarantacinque anni dalla guerra e fame del Biafra, che ripescare il crudele cliché dello scheletrino africano. Con la beffa: Arthur London, l’agenzia pubblicitaria che confeziona questi filmati, ha il fegato di definirli «un nuovo approccio» per il fund raising.

Non è in discussione l’opera sul campo di Save the Children; quei bambini, e molti altri, sono stati certamente salvati. Né dubitiamo che le rispettive mamme abbiano dato il consenso all’utilizzo delle immagini. La questione è un’altra. Si sta facendo tabula rasa di tutto un ormai lungo e articolato processo di riflessione sull’utilizzo delle immagini “di dolore”. È lecito (e fin dove? E in quali contesti di fruizione?) “sbattere il mostro in prima pagina”?… anche se il “mostro” è in realtà la vittima. La sua immagine fotografica, fissa o in movimento, è comunque il risultato di una violazione della sua intimità. Perché la fotografia, anche se non è la realtà, è comunque “un pezzo” di essa, molto più che non un disegno o un dipinto, nei quali è l’interpretazione a prevalere. Qui è messa “a nudo” la sofferenza di minori. Che fine ha fatto la Carta di Treviso? Parliamo del codice deontologico a uso dei giornalisti italiani stilato d’intesa con Telefono Azzurro, in cui si esige di «porre particolare attenzione nella diffusione delle immagini e delle vicende» riguardanti «bambini malati, feriti o disabili». Vale solo per gli italiani?… Per i bambini bianchi? È vero che questo documento concerne l’informazione giornalistica, dove il rischio di sfruttamento dei minori in termini di audience è palese. Ma la questione riguarda tutti, specie le ong che affermano di operare per la tutela dei diritti dei più deboli. E’ lecito calpestare la dignità di alcuni minori per salvarne altri?

E poi – fatto che per noi non è secondario – viene rinsaldato, una volta di più e con mezzi mediatici potenti, il già ben radicato immaginario coloniale dell’Occidente sull’Africa, che a suo tempo fu alimentato – lo riconosciamo – a fin di bene anche dai missionari. “A fin di bene”: ma questa oggi non è più, se mai lo fu, un’attenuante. È anzi un’aggravante. Inescusabile soprattutto oggi, quando sappiamo di vivere in un mondo ben diverso dagli anni del Biafra, un’era in cui l’informazione disponeva di strumenti infinitamente inferiori e una letteratura critica sull’umanitario non era ancora stata elaborata.

Save the Children comunica che lo spot «ci ha consentito di acquisire più di 14.000 nuovi donatori regolari»: il fine giustifica i mezzi? Ma già, lo ha dichiarato anche uno dei nomi che nella ong contano, John Graham: «Se non hai bambini affamati da far vedere, non ricevi fondi». Per salvare i bambini, la crudeltà, questo serve.

Pier Maria Mazzola e Marco Trovato

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2 commentI

Mirko Faustini 4 Gennaio 2019 - 11:51

Ma adesso, nel 2019, Kaiembe ha raggiunto i suoi 6 anni di vita?

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Mauro 14 Agosto 2020 - 11:05

Questi spot servono solo per ingrassare le già grasse tasche dei dirigenti e non mi stupirebbe che ci fosse sotto anche qualche politico …

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