Il 16 ottobre, dopo due settimane di arresti domiciliari, a Mimì Lucano è stato notificato il divieto di dimora nel suo proprio paese. L’accusa al sindaco di Riace, divenuto simbolo mondiale dell’accoglienza, è di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e abuso d’ufficio. La procura di Locri gli contesta di aver favorito due cooperative sociali che operano coi rifugiati e i richiedenti asilo, nonché di aver promosso matrimoni “di comodo” tra cittadine e migranti. Colpevole o innocente? Premesso che il giudice per le indagini preliminari ha escluso che il primo cittadino di Riace abbia violato la legge per tornaconto personale, e che la magistratura farà il suo corso, l’opinione pubblica si è spaccata: qui i difensori
oltranzisti della legalità, là chi assolve il sindaco, ritenendolo vittima di una ritorsione politica, o responsabile tutt’al più di un «reato di umanità» e di «disobbedienza civile».
Tra le fila di questi ultimi ci sono attivisti e intellettuali che credono legittimo, anzi doveroso, infrangere le regole quando minano diritti umani inalienabili. Questione non da poco, come dimostrano i casi di pescatori siciliani e tunisini finiti sotto processo per aver soccorso natanti nel Mediterraneo con migranti a bordo. O come illustra la vicenda delle ong criminalizzate. Diciamo le cose come stanno: il reato di cui Domenico Lucano è accusato potrebbe essere contestato a una moltitudine di italiani. Ci sono imprenditori che fanno carte false per regolarizzare dipendenti stranieri a rischio espulsione, pensionati che danno ospitalità a clandestini, giovani che aiutano i migranti a superare le frontiere, avvocati e medici che si espongono a rischi pur di dare una mano a chi è in difficoltà, preti e funzionari dello Stato che forzano le regole per permettere affidi, ricongiunzioni familiari e matrimoni tra italiani e stranieri, normalizzando situazioni che la burocrazia rende impossibile sbrogliare. Le leggi migratorie sembrano pensate apposta per produrre clandestini, alimentare le situazioni di illegalità, spingere a contravvenire allo Stato anche i cittadini più onesti.
Nell’esprimere la sua solidarietà al sindaco di Riace, don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, ha ammesso: «Capita di forzare la legge, di incorrere in qualche piccolo arrangiamento magari anche penalmente rilevante, se si è di fronte alla disperazione più cupa, al dovere di preservare diritti umani fondamentali e inviolabili che prevalgono su tutto. È capitato anche a me, che pure cerco di rispettare sempre le norme. Se venissi esaminato con ottuso rigore di legge, un rigore privo di compassione per chi cerco di aiutare, potrei finire anche io nei guai». A Riace, le migliaia di persone accorse da ogni dove, il 6 ottobre, per manifestare a favore del sindaco gridavano all’unisono in tono di sfida: «Arrestateci tutti». Urla di complicità e indignazione che continuano a riecheggiare su svariate piazze d’Italia da Palermo a Milano, e fanno venire alla memoria don Milani: «L’obbedienza non è più una virtù».