Il 31 ottobre le Nazioni Unite celebreranno il ventennio della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza su Donne, Pace e Sicurezza. Un’occasione per il centro di ricerca senegalese Istituto Timbuktu e per l’agenzia Onu Femmes per fare il punto sulla situazione delle donne e sulla disparità di genere in Africa
In una collettività, non c’è sviluppo senza inclusione. Un assioma tanto vero quanto universale, se intendiamo il concetto di inclusione a 360°: rivolto cioè a soggetti esterni alla società (quali ad esempio i cittadini stranieri), ma anche a tutti i suoi segmenti interni. L’esempio più lampante di mancanza di inclusione nel mondo riguarda la persistente disuguaglianza di genere: grave, quando non in termini di principio, fosse anche solo in termini utilitaristici, visto che il problema riguarda circa la metà della popolazione mondiale e di ogni Paese. Nel 2019, i dati della Banca Mondiale attestavano alla popolazione femminile un valore del 49,6% su una popolazione totale nel mondo di oltre 7,6 miliardi di persone: un dato tra l’altro in declino rispetto agli anni precedenti. Con circa il 50% di donne in tutto il continente, l’Africa riflette la situazione mondiale: una presenza importante in termini quantitativi e qualitativi, che l’Africa come il resto del mondo non può ignorare.
Risoluzioni Onu
Ben presto le Nazioni Unite commemoreranno il ventennio della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza su Donne, Pace e Sicurezza (Women, Peace and Security, Wps), adottata il 31 ottobre 2000. Per questo, i ricercatori del think-thank senegalese Istituto Timbuktu hanno fatto il punto della situazione per offrire spunti di riflessione al fine di implementare le giuste misure per il raggiungimento degli obiettivi della Risoluzione.
Come si legge nell’articolo di Fatima Lahnait, partendo dal presupposto che la disuguaglianza di genere contribuisca nei diversi contesti all’instabilità, all’insicurezza e alla degenerazione nella violenza estremista, e che al contrario un clima di pace e stabilità durevole sia raggiungibile attraverso la partecipazione di tutti quanti gli individui della società, il programma della Wps prevedeva che i diversi Paesi membri dell’Onu elaborassero azioni finalizzate a proteggere le donne dalle violenze dei conflitti, ma anche a coinvolgerle nella prevenzione e risoluzione degli stessi. Alle donne è infatti riconosciuta un’importante capacità di peace-buildings, di favorire forme di dialogo tra le diverse fazioni di un conflitto, di aumentare il carattere inclusivo, la trasparenza e la sostenibilità dei processi di pace. Dal 2000, altre risoluzioni hanno sottolineato la priorità di questi due principi: tra queste, importante da menzionare è quella del 2008 (n.1820) che riconosce la violenza sessuale come arma di guerra, contribuendo a rendere più consapevole la comunità internazionale del problema e a stimolarla a rafforzare la battaglia contro la violenza sessuale nei conflitti armati e l’impunità di tali gravi violazioni di diritti umani.
Il panorama africano
Fatima Lahnait ci ricorda tuttavia quanto sia ancora lunga la strada da percorrere in questa direzione. Se a livello internazionale meno della metà degli Stati membri hanno adottato un Piano di Azione Nazionale (Nap) per implementare la Wps, in Africa lo ha fatto quasi la metà dei Paesi del continente, ovvero 25: Costa D’Avorio (2007), Uganda (2008), Guinea (2009), Liberia (2009), Ruanda (2009), Repubblica Democratica del Congo (2010), Sierra Leone (2010), Guinea-Bissau (2010), Senegal (2011), Burundi (2012), Burkina Faso(2012), Gambia (2012), Mali (2012), Togo (2012), Nigeria (2012), Repubblica Centrafricana (2014), Kenya (2016), Sud Sudan (2015), Niger (2017), Angola (2017), Camerun (2017), Mozambico (2018), Tunisia (2018) e Namibia (2019). In Sudafrica, il Nap è stato presentato in Parlamento a settembre scorso, mentre i governi di Marocco, Egitto, Madagascar e Zambia si sono impegnati a farlo: se i Paesi dell’Africa occidentale e le organizzazioni sub-regionali si sono mostrati più attivi nel sostenere la causa (almeno da un punto di vista legislativo nazionale), gli Stati nordafricani hanno mostrato meno consapevolezza.
Globalmente, secondo Lanhait, la mancanza reale di volontà o interesse di molti leader africani rispetto ai diritti delle donne è un dato di fatto, insieme anche, tuttavia, alla mancanza di risorse economiche per raggiungerne gli obiettivi della risoluzione e alla complessità e problematicità dei contesti africani: Paesi che devono fronteggiare contemporaneamente molteplici sfide, quali terrorismo, conflitti di diverso tipo, migrazioni illegali e grandi spostamenti di popolazioni, proliferazione di armi, effetti del cambiamento climatico, malattie ed epidemie.
A partire dagli uffici regionali sparsi sul continente, in particolare da quello di Dakar e Nairobi, l’Onu Femmes continua a realizzare progetti sui diritti delle donne, in particolare sulla loro promozione nei processi decisionali, in collaborazione con i governi e la società civile dei diversi Paesi.
L’agenzia Onu dedicata alle donne dichiara come l’Africa abbia comunque fatto prova formalmente del suo impegno nella promozione dell’uguaglianza dei sessi e del processo di autonomia delle donne: quasi tutti i Paesi hanno ratificato la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne, mentre più della metà ha ratificato il Protocollo sui diritti delle donne in Africa dell’Unione Africana, che tra l’altro ha dichiarato il 2010-2020 decennio della donna africana. Accordi teorici a parte, Onu Femmes sottolinea tuttavia come in termini concreti le donne costituiscano ancora una fascia della popolazione vulnerabile, lavorino in condizioni precarie, mal pagate e con poche possibilità di avanzamento. La pandemia di Covid-19 non ha fatto ovviamente che peggiorare la situazione: oltre a rendere le loro condizioni economiche ancora più precarie, ha reso le donne tristemente più soggette a maltrattamenti, violenze domestiche e sessuali (noi ne abbiamo parlato rispetto alla situazione in Sudafrica). Dal punto di vista della salute, le donne sono più esposte al rischio di contagio per via del grande ruolo da loro giocato durante le crisi e le malattie nella vita della comunità, quando non come infermiere e professioniste in ambito sanitario; inoltre, l’emergenza di Coronavirus ha assorbito gli sforzi di tutti i servizi sanitari sul territorio, ivi compresi quelli dedicati alle donne e alle minori, per esempio alla loro sicurezza sessuale e riproduttiva.
Campagne ed esposizioni
« Abbiamo bisogno di strategie di attenuazione che siano indirizzate specificatamente alle conseguenze sanitarie ed economiche dell’epidemia di Covid-19 sulle donne e che sostengano e rafforzino la resilienza delle donne», afferma Anita Bathia, vice-direttrice di Onu Femme. Tra le altre proposte concrete, Bathia invita tutti a raggiungere la campagna HeforShe@home, in cui si chiede agli uomini e ai ragazzi di fare la loro parte nelle faccende domestiche e alleggerire così il fardello di responsabilità che incombe in modo spropositato sulle donne.
Intanto, a marzo scorso l’Ufficio Regionale di Onu Femme per l’Africa occidentale e centrale ha inaugurato in collaborazione con il Museo delle civilizzazioni nere di Dakar una mostra sulle leader politiche in Africa, per promuovere l’informazione e la consapevolezza sull’entità della partecipazione politica femminile in tutto il continente. L’esposizione è finanziata dal governo canadese e si potrà visitare fino a marzo 2022.
(testo e foto di Luciana De Michele)