Solo un quarto dei seggi parlamentari nel mondo sono occupati da donne. In Africa, questa cifra comprende uno sviluppo molto diseguale con numeri elevati in Paesi come il Rwanda (64%) e il Sudafrica (46%). All’altra estremità dello spettro ci sono il Ghana (14%), il Botswana (10%) e la Nigeria (3%).
Un nuovo libro, Gendered Institutions and Women’s Political Representation in Africa, curato da Diana Højlund Madsen, senior gender researcher al Nordic Africa Institute di Uppsala, in Svezia, esamina le intricate dinamiche delle istituzioni formali e informali che influenzano la rappresentanza politica delle donne in otto Paesi africani.
In un articolo pubblicato su The Conversation l’autrice, insieme con la collega Amanda Gouws, si focalizza sulla situazione del Ghana, che è stato il primo paese dell’Africa subsahariana a introdurre una quota per le donne in parlamento. Nel 1959 furono assegnati 10 seggi alle donne su un totale di 114. Con la deposizione di Nkrumah, nel 1966, tutto questo cessò.
“La rappresentanza politica delle donne in Ghana non ha mai superato l’attuale 14%, con 275 seggi in parlamento. Nel 1998, durante il regime di Jerry John Rawlings, è stata adottata una direttiva amministrativa. L’obiettivo era far sì che la Commissione elettorale nazionale incoraggiasse tutti i partiti politici ad avere più candidate donne con un obiettivo di almeno il 40%”, scrivono le autrici. In realtà non è cambiato nulla.
Dal 2011 si discute tuttavia su un disegno di legge che porti a un’azione affermativa. Ma nonostante le dichiarazioni di impegno e di principio dei partito di maggioranza (Nuovo Partito Patriottico) e di quello di opposizione (Congresso Nazionale Democratico), nessuna legge è stata adottata.
“È stata persino formata una coalizione di legge sull’azione affermativa per farcela”, osservano le autrici. “Ma un debole meccanismo nazionale di genere e la resistenza da parte di alcuni parlamentari uomini ne hanno ostacolato l’adozione”. Inoltre, ci sono una vasta gamma di istituzioni informali che contrastano l’ingresso e la permanenza delle donne in politica.
Le poche che ce l’hanno fatta riferiscono di clima tossico e misogino. “Le donne sono sottoposte a un controllo più accurato rispetto alle loro controparti maschili. Sono anche attaccate da oppositori politici a causa del loro aspetto e della loro sessualità. Sopportano commenti derisori sul loro trucco e sono spesso etichettate come prostitute”.
Nel 2020 la donna in carica da uno dei principali partiti politici, il Congresso Nazionale Democratico, Naana Jane Opoku-Agyamang, è stata liquidata pubblicamente come una “strega” da un influente membro del Partito Nuovo Patriottico al potere.
E c’è anche un altro ostacolo, di natura economica ma ugualmente sistemico: il costo della corsa per il parlamento. “Un rapporto del 2018 ha mostrato che il costo della campagna per il parlamento è aumentato del 59% tra le elezioni del 2012 e del 2016”.
La pressione si è leggermente allentata grazie a una riduzione del 50% nel 2012 delle tasse di deposito per le candidate donne. Ma la campagna elettorale rimane una grande spesa. E molto spesso le donne che riescono ad accedere alle risorse necessarie per scendere in campo sono accompagnate da voci secondo cui avrebbero fornito favori sessuali in cambio di sostegno finanziario.
(Stefania Ragusa)