Sono due i siti naturali e storici africani ad essere entrati di recente a far parte dell’Unesco: il Parco nazionale di Ivindo nel Gabon e le moschee di stile sudanese che si trovano in Costa d’avorio. Due scelte del World Heritage Commitee per preservare il patrimonio storico-artistico e naturale del continente.
di Mario Ghirardi
Una nuova spinta verso la preservazione dei tesori naturali e storici che il continente africano nasconde e che ancora troppo pochi conoscono è venuta dalle scelte operate dall’Unesco, il cui World Heritage Commitee ha concluso il 31 luglio la sua 44° sessione di lavori nella città cinese di Fuzhou, dopo aver dovuto saltare l’appuntamento del 2020 a causa della pandemia.
I 21 membri che lo compongono, in rappresentanza di nazioni di tutti i continenti, hanno infatti scelto di dichiarare siti Patrimonio dell’Umanità il Parco nazionale di Ivindo nel Gabon (foto di apertura) e le moschee di stile sudanese esistenti nel nord della Costa d’Avorio, puntando dunque da una parte a preservare un intatto ecosistema di foreste attraversate da una rete capillare di fiumi e dall’altra a salvaguardare il caratteristico lavoro che geniali architetti-artigiani hanno saputo tramandarsi nei secoli nell’edificare originali ed artistici edifici in terra, cotta soltanto al sole.
Il parco nazionale di Ivindo si trova nel settentrione della piccola Repubblica del Gabon, uno dei Paesi più sviluppati economicamente e socialmente del Centrafrica, che chiude a sud il Golfo di Guinea; è sulla stessa latitudine della capitale Libreville, esattamente sulla linea dell’equatore, in una zona abitata dalle etnie di pigmei, bantù e fang, ‘pizzicato’ tra le due uniche arterie viarie, le Nazionali N3 e N4 che conducono ad oriente verso il confine congolese e che qui si arrestano. L’Ivindo è un vastissimo altopiano, bacino orografico del grande fiume Ogoouè, che lo percorre a nord in tutta la sua larghezza, dopo aver lasciato le sorgenti che si trovano ai confini congolesi. Si tratta di un sito di 300 mila ettari fortunatamente intatto, dove domina la fittissima foresta pluviale, attraversata oltre che dall’Ogoouè anche da una ramificata rete di suoi affluenti, che danno vita ad un paesaggio meraviglioso di rapide e incantevoli cascate. In quest’ambiente primordiale vivono una fauna e una flora, varia e rigogliosa, persino ancora da studiare a fondo: poco si sa delle antichissime foreste di caesalpinioideae, di altissimo valore biologico e uniche del genere, che ospitano una quantità incredibile di specie diverse di farfalle, anch’esse poco note, così come le specie endemiche di pesci d’acqua dolce di cui sono ricchi i fiumi e la flora acquatica microendemica che si nasconde in ogni cascata.
Se il pappagallo cinerino e l’uccello ‘dal collo grigio’ sono i volatili più caratteristici dell’Ivindo, anche i grandi mammiferi non mancano, a partire dall’elefante di foresta e dal leopardo, in grave pericolo di estinzione, così come il gorilla di pianura, il coccodrillo dal muso sottile, il mandrillo, il pangolino e un tipo particolare di scimpanzè. La decisione dell’Unesco è giunta forse in tempo, in quanto non solo porta l’attenzione in questo remotissimo luogo lontano dalle vie di comunicazione, ma anche contribuirà ad impedire che si compiano quei tentativi di manomissione legati ad ipotetici sfruttamenti di risorse minerarie o del sottosuolo, di cui spesso il mondo si accorge solo quando il quadro ambientale è già compromesso.
Come è noto infatti, il riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità non è una pura dichiarazione di intenti teorica, ma porta con sé anche stanziamenti economici ed assistenza tecnica da parte degli organismi internazionali e fa prendere coscienza ai governanti locali ed ai cittadini dell’importanza della tutela dei luoghi, alzandone inevitabilmente il livello di protezione.
Legata invece all’attenzione per le opere compiute dagli uomini nei secoli, è la scelta di tutelare le moschee in stile sudanese in mattoni di terra cruda della Costa d’Avorio, in particolare il gruppo di venti che sono sopravvissute nell’arco settentrionale del Paese costiero che si affaccia sul Golfo di Guinea, dalla parte opposta rispetto al Gabon prima citato. L’Unesco ha individuato, nei villaggi di Tengrela, Kouto, Sorobango, Samatiguila, M’Benguè, Kong e Kouara in particolare, otto di questi edifici religiosi, che hanno saputo mescolare con sapienza le tradizioni locali a quelle islamiche, fornendo dei capolavori di architettura ‘povera’, caratterizzati da affusolati minareti e strutture verticali con travi sporgenti e pareti, decorate da ceramiche e uova di struzzo, e fatte di mattoni formati dall’adobe, l’impasto ottenuto con sabbia, argilla e paglia, ed essiccati al sole. In Costa d’Avorio edifici con queste caratteristiche erano presenti a centinaia sino ad un secolo fa, dopo che i modelli erano stati importati in zona nel ‘600 sulla scia del commercio transahariano delle popolazioni arabe. Le origini dello stile vanno però ricercate addirittura nel XIV secolo, quando i primi esemplari comparvero in Mali, nella città di Djennè, prospera allora per i commerci di sale ed oro, con le carovane che attraversavano il deserto provenienti dal Centrafrica e dirette sulla costa mediterranea. Djennè ancora oggi ne conserva splendidi esempi.
(Mario Ghirardi)