Partiamo da un dettaglio. L’imam della Grande moschea di Bangui che lunedì mattina ha ricevuto papa Francesco per sentirsi dire che «cristiani e musulmani siamo fratelli», e che pochi giorni prima della visita aveva manifestato gioia per il prossimo evento invocando pace e tranquillità «prima, durante e dopo» la visita, è lo stesso che all’inizio del 2014 – dopo le reazioni violente degli anti-Balaka che avevano fatto uscire da Bangui gli armati della «islamica» Seleka, lasciando un’enclave di popolazione musulmana assediata nel quartiere PK5 – aveva dichiarato: «Gli imam hanno annunciato che da oggi lasceranno ai loro discepoli decidere da sé la reazione più appropriata a questa nuova provocazione». Un anno dopo, il presidente della Comunità islamica della Repubblica centrafricana – che fa parte del terzetto interreligioso che lavora per la pace, insieme all’arcivescovo cattolico e al rappresentante protestante – si vedeva costretto a sconfessare la richiesta che quello stesso imam Tidiani Moussa Naïbi aveva avanzato «al mondo islamico di soccorrere i musulmani del Centrafrica. In questo modo – chiariva Oumar Kobine Layama – egli ha teso la mano a gruppi come Boko Haram. Un buon musulmano sa invece che il vero jihad non è una guerra armata contro i cristiani o gli “infedeli”, ma è una missione interna all’islam».
Questo, per dire come anche il mondo islamico centrafricano sia travagliato al suo interno, e come anche un’autorità religiosa possa fare un positivo cammino di apertura. L’inviato dell’agenzia Afp ha riportato come, all’esterno dello stadio «Barthélemy Boganda» dove si celebrava la grande messa, siano arrivati due pick-up carichi di musulmani. Indossavano magliette con l’effigie del Papa e davanti al maxischermo hanno seguito la celebrazione. Muovendosi al di fuori del PK5, aree per loro normalmente ad elevato rischio, la gente ha fatto loro buona accoglienza gridando: «L’odio è finito!».
La guerra è allora terminata e il Paese si è riconciliato? Un miracolo così profondo e subitaneo è poco pensabile. Rimane il fatto che la venuta di Francesco in questo Paese – senza aver dovuto paracadutarsi come davvero fece Bokassa, nel 1986, nel folle tentativo di riprendersi il suo «impero» in mano – è un evento di portata storica (…confidando di non contribuire all’inflazione di questo aggettivo). E per più di un motivo.
Anzitutto lo è, com’è naturale, per i centrafricani. La prima volta che ricevono un papa, e in un momento tragico della loro storia, e con incertezze fino all’ultimo momento, e con l’apertura della Porta santa non solo per loro ma per tutto il mondo, ecc. Insomma una inebriante carica di speranza e di riconoscimento alla loro dignità di persone e di popolo.
Lo è per il continente. «La mia visita intende anche attirare l’attenzione verso l’Africa nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste. Il mondo guarda all’Africa come al continente della speranza», ha detto il Pontefice al suo arrivo in Uganda. Ed è riuscito nell’intento, a quanto pare. Poi, certo, il circo mediatico continuerà a spostarsi e a occuparsi di questa regione del mondo… a targhe alterne, e soprattutto in caso di (grosse) disgrazie. Ma forse qualcosa sta cambiando. In tal senso, questa visita pastorale va vista come un tutto, culminante nel Centrafrica e significativo per tutta l’Africa. Simbolicamente, non è più un continente marginale o a rimorchio ma con un suo protagonismo, che deve essere al tempo stesso assunzione di responsabilità.
Storico questo viaggio è anche per la Chiesa. Quella d’Africa, in primo luogo, ma allo stesso tempo per la Chiesa universale. È come se Francesco avesse progettato di venire nel cuore del continente ad affermare la sua visione di una Chiesa non più romanocentrica (anche se ci vorrà poi ancora chissà quanto per concretizzare il nuovo assetto). Ecco in breve alcune tappe di questo percorso, culminate nello spalancare la porta domenica 29 novembre: la sua prima parola pubblica, appena eletto, fu per presentarsi come «vescovo di Roma», cioè come il vescovo di una Chiesa locale tra i vescovi di altre Chiese locali (anche se, ovviamente, con un ruolo di «presidenza nella carità»); il lancio del Sinodo, che ha voluto non fosse più un convegno di prelati ma un vero cammino di Chiese (articolato in due fasi, con questionari rivolti a tutti e non solo al clero, ecc.); il suo discorso durante il Sinodo dello scorso ottobre, in cui, riprendendo la sua stessa Evangelii gaudium, ha prefigurato la messa in opera di una «salutare decentralizzazione»; l’indizione del Giubileo con l’apertura non di una, o quattro, Porte sante, ma… innumerevoli, in tutte le diocesi e nei santuari e… nelle carceri. Ed eccolo ora a Bangui, che egli dichiara «capitale spirituale del mondo». Uscendo dal testo precotto, insiste che «oggi, qui, noi abbiamo iniziato» l’anno giubilare. Roma addio. Se il senso di Roma è di essere la città adottiva di Pietro, vuol dire che ormai Roma è ovunque Pietro si trovi. E più è un luogo periferico, più è una Roma evangelica.
Ci furono tempi in cui i teologi più «terzomondisti» auspicavano patriarcati continentali con un ruolo effettivo (non solo onorifici come quelli attuali, per esempio Venezia o Lisbona), in una prospettiva di rinnovamento del cosiddetto ministero petrino. E… non solo teologi terzomondisti! Uno di loro scrisse: «Si dovrà riflettere fra non molto su come dare alle Chiese d’Asia e d’Africa, così come a quelle d’Oriente, una loro forma propria come “patriarcati” o “grandi Chiese” autonome, o comunque si chiameranno tali ecclesiae nella ecclesia in futuro». Chi era questo teologo? Un tale Joseph Ratzinger. Correva l’anno 1969… Insomma questo portone della semplice cattedrale di Bangui, che è servita anche da campo profughi, potrebbe aprire una nuova era di come la Chiesa concepisce sé stessa. Per meglio servire il Vangelo nella «carne dei poveri».
Pier Maria Mazzola