di Mario Giro
Anche il Burkina Faso, come la Guinea e il Mali, è finito nelle mani dei militari. Senza dimenticare il Sudan e il Ciad. E per non dire del tentato golpe di inizio febbraio a Bissau. Che cosa c’è dietro questa ondata di colpi di stato?
Il golpe in Africa è tornato di moda. In un anno e mezzo, quello del 24 gennaio in Burkina Faso si è aggiunto ai due colpi in Mali, a quello in Guinea e ad uno strano autogolpe in Ciad. Si era perduta memoria di tanti putsch militari in poco tempo, e soltanto in pochi rammentano l’ultimo tentato in Gabon nel 2019, durato meno di un giorno e con soli due morti, una specie di burletta. La ripresa dei colpi di stato è una sorpresa per gli osservatori di cose africane? Solo in parte. Certamente per chi conosce quanto contano gli eserciti nel continente si tratta della conferma di una patologia.
Per decenni l’Africa è stata la patria dei golpe: quasi 90 condotti dai militari dagli anni Sessanta agli Ottanta e oltre. Longevi
presidenti africani sono stati decenni al potere dopo averlo strappato con le armi, come al-Bashir del Sudan (dal 1989 al 2019), Teodoro Obiang della Guinea Equatoriale (ancora in sella dal 1979) o Idriss Déby del Ciad (1990-2021). Talvolta un fallito golpe ha dato poi luogo a insurrezioni militari di più lungo periodo come nel caso dell’Uganda. Ci sono casi di golpisti in seguito rieletti democraticamente, come Denis Sassou Nguesso del Congo (Brazzaville). Certamente nella storia africana vi sono anche leader giunti al potere tramite colpi di stato rivoluzionari. Il più noto è forse il capitano Thomas Sankara, una specie di Che Guevara africano, lui stesso scalzato da un colpo interno del suo secondo, Blaise Compaoré.
Salvo eccezioni, quasi tutti coloro che sono saliti al potere con le armi si sono fatti confermare dal voto popolare. I colpi di stato vengono utilizzati come strumento di risoluzione politica di contenziosi, come nel caso del Mali, dove una parte politica ha appoggiato i militari, oppure in forma di autogolpe come nel caso del Ciad. A inizio febbraio anche in Guinea-Bissau c’è stato un ennesimo tentativo di putsch: l’ennesimo nella travagliata storia di questo piccolo stato dell’Africa occidentale con un’economia criminale basata sul traffico di cocaina. Va detto che prima del volgere del millennio la maggioranza dei
leader africani era giunta al potere in maniera più o meno violenta, malgrado la democratizzazione degli anni Novanta.
Le ragioni dell’attuale nuova proliferazione di golpe sono molteplici e diverse dal passato. La più importante è forse la sfida del jihadismo, che ha messo in crisi le basi istituzionali di molti Paesi, soprattutto nel Sahel, dando spazio agli eserciti. I militari africani si sono trovati davanti a crisi gravissime e ne sono stati umiliati. La loro reazione è stata una forte contestazione dell’ordine politico, accusato di averli abbandonati o non sufficientemente sostenuti. Il resto lo ha fatto l’antipolitica, che spira anche a quelle latitudini: in molti casi l’esercito ha preso il potere sostenuto dalla gente, stanca di corruzione ed impotenza.
C’è anche un tema di relazioni con gli europei, in particolare con gli ex colonizzatori francesi (almeno nel Sahel). Una volta i colpi di stato erano sostenuti dalle potenze occidentali o almeno autorizzati. La Francia ha giocato un ruolo preminente su tale terreno negli anni dopo le indipendenze, sostenendo numerosi colpi con il sostegno silenzioso degli Stati Uniti. Era il vecchio sistema della Françafrique: appaltare buona parte dell’Africa a Parigi per rassicurare il campo occidentale. De Gaulle sosteneva che senza l’Africa francofona Parigi sarebbe stata insignificante nel quadro internazionale: per esempio in ambito Onu ha sempre fatto molto comodo avere già garantito un certo numero di voti. Oggi tutta questa storia diventa un boomerang che si scarica contro le autorità francesi, giunte in aiuto contro i jihadisti. Un modo forse di pagare gli errori del passato. In realtà non c’è più fiducia tra europei e africani: si è giunti a un limite di incomunicabilità. Manca totalmente un pensiero politico europeo sull’Africa che sostituisca quello delle ex potenze coloniali e del neocolonialismo che è prevalso dopo. Su questo fanno leva molti leader militari attuali.