di Raffaele Masto
Piccole storie di grandi uomini e donne che hanno voluto rimanere vicino alla gente per condividerne paure e destino
Non è un caso che siano missionari. Le vittime di Ebola fuori dall’Africa finora sono tutti missionari, religiosi che non hanno voluto arretrare, che non hanno voluto abbandonare le comunità nelle quali si erano inseriti e per le quali mettevano a disposizione le loro competenze mediche o infermieristiche, o semplicemente la loro capacità di condividere la vita, con le sue gioie e le sue sofferenze.
Sono missionari anche Davide Writebol e la moglie Nancy, medici, evacuati dalla Liberia perché lui era risultato infettato dalla malattia. Sottoposto al siero dell’azienda farmaceutica Zmapp, si è salvato ma ha continuato a gran voce a chiedere che la stessa terapia fosse messa a disposizione della sua comunità.
Ma la storia più profonda e più significativa è quella di Padre Miguel Pajares, spagnolo, anche lui evacuato dalla Liberia e anche lui sottoposto, inutilmente, al siero della Zmapp. Fino a quando è rimasto cosciente, Padre Miguel ha continuato a chiedere che alla stessa cura fossero sottoposte anche Chantal Pascaline e Paciencia Melgar, suore, anche loro missionarie, ma di nazionalità congolese l’una e guineana l’altra.
Al momento della evacuazione verso la Spagna, Padre Miguel – unitamente al suo Istituto – voleva che anche Chantal e Paciencia fossero evacuate con lui. E’ stato impossibile, ha vinto la fredda ragion di Stato: non erano spagnole. Padre Miguel non se ne è fatto una ragione fino alla fine. Suor Chantal è morta a Monrovia, il giorno prima di lui. Altri due religiosi compagni di missione di Pajares e Chantal sono morti a Monrovia.
L’ospedale di Gulu
Anche in passato, gli europei o occidentali morti per Ebola erano in grande maggioranza missionari, o comunque persone che avevano deciso di dedicarsi ai loro fratelli africani. Commovente la storia che, nel 2000, si svolse all’ospedale St. Mary’s Lacor di Gulu, in Uganda, fondato da Piero e Lucille Corti, lui medico lombardo, lei dottoressa canadese del Quebec.
Qui Ebola fu individuata prima che diventasse incontrollabile, grazie proprio al direttore sanitario dell’ospedale, Matthew Lukwiya, 43 anni, che capì immediatamente la situazione. Matthew Lukwiya riunì tutto il personale dell’ospedale, circa 600 persone, e si rivolse loro più o meno in questi termini: «Siamo di fronte ad un’epidemia di Ebola. Se non ci attiviamo per contenerla, sarà una strage. Il virus è altamente contagioso, il contatto con i malati pericoloso ma, se si seguono scrupolosamente tutte le precauzioni, si può evitare il contagio. Chi non se la sente di partecipare a questo servizio, è autorizzato ad astenersi. Ma sconsiglio vivamente di lasciare l’area dell’ospedale e tornare ai villaggi: siete già stati tutti esposti al virus e, se qualcuno fra voi è contagiato, rischiate di sterminare le vostre famiglie».
Una quarantina di dipendenti rimase in prima linea per tentare di contenere il virus. E ce la fecero: i casi registrati furono 376, i decessi 160, cioè poco più del 40 per cento: la metà del tasso di mortalità abituale di Ebola. Ma tra i morti ci furono alcuni volontari, tra i quali anche il dottor Matthew.
Le Suore Poverelle
Ebola si manifestò per la prima volta in modo massiccio nel 1995 a Kikwit, in Congo. Anche in quel caso ci furono storie di eroi e anche in quel caso si trattava di missionari. Suore per la precisione della Congregazione delle Poverelle. Erano in prima linea nell’assistere i malati, consapevoli dei rischi che correvano, lontane dai riflettori della cronaca e della fama. Morirono una dopo l’altra, fra l’aprile e il maggio del 1995. Ora è in corso una causa di beatificazione ma già oggi i loro nomi sono oggetto di grande ammirazione. Si trattava di suor Floralba Rondi, 71 anni, di Pedrengo (Bg), la prima a morire il 25 aprile 1995, affettuosamente chiamata «mama Mbuta» dagli africani per la sua tenerezza verso i malati; suor Clarangela Ghilardi, 64 anni, di Trescore Balneario (Bg); suor Danielangela Sorti, 47 anni, di Lallio (Bg), che scrisse su retro di una fotografia: «Amore chiede Amore»; suor Dinarosa Belleri, 59 anni, di Villacarcina (Bs), che diceva a tutti: «Io sono qui in Africa a seguire le orme del mio Fondatore, cioè servire i poveri»; suor Annelvira Ossoli, 58 anni, di Orzivecchi (Bs), superiora provinciale, chiamata «la donna della vita» dagli africani per i tantissimi bambini che aveva fatto nascere in quarantatré anni di missione; suor Vitarosa Zorza, 51 anni, di Palosco (Bg), l’ultima a morire, il 28 maggio 1995: era corsa a Kikwit per assistere le consorelle, dicendo: «Perché devo aver paura? Le altre sono lì, in questo momento hanno bisogno di me».
Per le sei Suore Poverelle, si dice che l’Italia detiene il record dei morti per Ebola. Si dovrebbe dire che il record è degli africani (qualche migliaio nelle varie epidemie) e dei missionari che hanno voluto condividere con loro la buona e la cattiva sorte, senza tirarsi indietro.
Mappa e dati statistici aggiornati tratti da: extranet.who.int/ebola/