Oltre duemila morti in tredici mesi, in un’area della Rd Congo già martoriata da violenze senza fine. Per fortuna, è notizia di poche ore fa la guarigione dell’ultimo malato di ebola nel Paese. Il nostro reportage uscito sul numero di novembre-dicembre 2019 ad epidemia ancora in corso
«Ebola esiste, non stancatevi di lavarvi le mani e di proteggervi… Ebola esiste, non stancatevi di lavarvi le mani e di proteggervi». Da un piccolo altoparlante, ininterrottamente, una voce tetra e metallica continua a diffondere appelli sull’esistenza del virus più letale al mondo e intanto decine di persone attendono di farsi misurare la febbre all’ingresso di Beni, epicentro dell’epidemia di ebola. Operatori sanitari e militari delle forze armate della Repubblica democratica del Congo presidiano il posto di blocco, indossano maschere e guanti, obbligano chiunque transiti a registrarsi: nome e cognome, luogo di provenienza, temperatura corporea.
Bambini senza contatto fisico
Una volta completate le procedure di controllo ed entrati nella città divenuta il cuore dell’infezione, ecco che la psicosi e l’inquietudine si manifestano con estrema violenza. Una strada sterrata circondata da una natura impenetrabile conduce al centro abitato e lungo il tragitto un cartello appeso nel cortile di una scuola elementare illustra, con spietato realismo, le varie fasi della malattia. «Ebola uccide», recita la scritta principale, accompagnata da disegni che mostrano un uomo con tremori, diarrea, vomito ed emorragie.
Tutt’intorno, alcuni bambini fanno delle piccole marce intonando filastrocche, ma senza tenersi per mano, e gli insegnanti controllano che tutti rispettino le distanze che sono state loro imposte. Elisabeth Namba, la maestra, racconta: «Da quando è scoppiata l’epidemia, agli alunni non permettiamo di fare giochi che prevedono il contatto fisico. Saltano la corda, corrono, abbiamo insegnato anche canzoni che parlano delle norme igieniche da rispettare, ma non devono toccarsi. Dobbiamo fare in modo che venga evitato anche il più piccolo comportamento a rischio. Il virus ha cambiato la vita di tutti noi».
Il virus dilaga
Per le vie di Beni da subito si incrociano fuoristrada adattati al trasporto degli ammalati e carri funebri che portano le salme dall’obitorio ai numerosi cimiteri cittadini. Cartelli stradali indicano dove si trova il Centro di Trattamento, luogo in cui vengono ricoverati i contagiati. È da questa struttura, sorta come un fortino inespugnabile nel cortile del vecchio ospedale, che occorre partire per conoscere la prima epidemia di ebola della storia in un contesto di guerra e la più spietata per numero di bambini contagiati.
L’epidemia in corso nella Rd Congo è scoppiata nell’agosto del 2018. In un anno, i contagi sono stati oltre 3000, i decessi più di 2000 e il tasso di mortalità, intorno al 67%, è tra i più alti mai registrati. Una situazione estremamente preoccupante soprattutto per quel che riguarda i minori. L’Unicef ha comunicato, infatti, che su 850 bambini colpiti 600 sono deceduti e il virus, sebbene siano stati introdotti nuovi trattamenti terapeutici e un vaccino sperimentale, non si arresta, tanto che dalle province del Nord Kivu e dell’Ituri ha raggiunto anche il Sud Kivu.
Negare per sperare
La malattia, che si trasmette tramite il contatto con qualsiasi fluido biologico di una persona infetta, inizialmente si manifesta con febbre, mal di testa e nausea, per proseguire con vomito, diarrea ed emorragie, infine il collasso di organi e apparati e quindi la morte. Ma ora, conseguente all’ebola, si sono diffusi anche complottismo e dietrologie che, alimentati da credenze popolari, superstizioni, strumentalizzazioni politiche ed esasperazione sociale, spingono sempre più persone a convincersi che il morbo non esiste e che sia solo una strategia di potenze occulte per sterminare la popolazione. Le comunità hanno iniziato a dimostrare ostilità verso le organizzazioni che operano per arrestare l’epidemia, alcuni medici sono stati assassinati, diversi presidi medici sono stati dati alle fiamme e la negazione del morbo induce le persone a non adottare alcuna misura precauzionale, con l’ovvia conseguenza che tutto ciò impedisce che la catena di contagio possa aver fine.
«Beni è una città permeata dalla morte. Noi siamo nella zona rossa, tutto il mondo sa che qui c’è la guerra. L’arrivo dell’ebola ha gettato la popolazione nel panico. Oltre all’insicurezza a causa del conflitto adesso c’è anche la malattia più letale al mondo. La gente si è messa a negare l’esistenza del virus perché la negazione è talvolta l’unico mezzo che si ha per non sprofondare nella disperazione. Questo comportamento però sta causando problemi enormi».
A spiegare la situazione è Joël Efoloko, medico congolese che lavora nel Centro di Trattamento dell’ong Alima, che prosegue: «I tassi di mortalità sono intorno al 70% e per salvarsi occorre intervenire già dai primi sintomi della malattia. Molti però ci vengono portati quando ormai è troppo tardi. È necessaria maggior comunicazione e informazione. Occorre che gli abitanti di Beni accettino l’esistenza di ebola: solo così si può sconfiggere il virus».
«Non mi resta che pregare»
Dopo l’intervista, il medico ci accompagna a visitare il Centro. Medici vestiti con tute ermetiche entrano ed escono da tende trasparenti dove sono ricoverati i pazienti. Donne, uomini e bambini che hanno contratto l’ebola sono in totale isolamento e ogni paziente è seguito da due medici e un infermiere che controllano i parametri e l’ossigenazione, e somministrano le cure. «Quando il team medico esce dalla zona ad alto rischio deve farlo con estrema attenzione – spiega sempre il dottor Efoloko –. Ci sono dei professionisti incaricati di lavare i medici con acqua e cloro e poi di bruciare le tute che indossano. Tutto ciò che è stato all’interno della zona ad alto rischio di contagio deve essere disinfettato o bruciato».
Mentre il medico parla, arrivano parenti in visita ai ricoverati. I famigliari si dispongono nel cortile intorno alle tende e osservano padri, madri e figli in isolamento. Igo non smette di guardare il figlio Eliel, 10 anni: è in coma e respira con una maschera dell’ossigeno. «Mia moglie e mio figlio sono entrambi ammalati – spiega l’uomo –. I medici mi hanno detto che mia moglie sta guarendo e la sua situazione è migliorata. Quanto a mio figlio, mi hanno detto che se credo in Dio non mi resta che pregare».
Cordoni di sicurezza
Il dolore è la sola certezza e l’unica costante a Beni, dove i funerali scandiscono il tempo come un metronomo della sofferenza. È pomeriggio, un cielo saturo di nuvole gonfie di pioggia minaccia un imminente temporale e intanto nella sede della commissione di pronto intervento arriva la segnalazione di un decesso per ebola nel quartiere di Paida. Il responsabile della protezione civile Jean-Paul Kapitula spiega: «Noi abbiamo un centralino che continua a ricevere chiamate. Tutte le segnalazioni di casi sospetti o morti per l’infezione arrivano nella nostra sede e noi inviamo subito un’équipe sul posto, a prelevare il defunto». Nel caso di morte per ebola, il corpo viene prelevato dal personale sanitario e non viene più restituito alla famiglia a motivo dell’alto rischio di contagio; ai parenti è concesso, al momento del funerale, solo un ultimo saluto a un anonimo sacco bianco.
La squadra di intervento, scortata da un pick-up dell’esercito, si reca nella periferia della città dove viveva Kambale Mandefu, l’uomo di 29 anni da poco spirato. I militari creano un cordone di sicurezza intorno all’abitazione mentre uomini e donne della protezione civile indossano tute, maschere, occhiali, guanti, e dopo la vestizione aspergono la casa con una soluzione ad alta concentrazione di cloro; poi bruciano materassi e cuscini e solo alla fine trasferiscono il corpo sul fuoristrada per recarsi all’obitorio. Tutt’intorno i vicini assistono in un assordante e spaventoso silenzio, rotto solo dal pianto disperato di una donna.
«Sono morta due volte»
E il dolore è la sola certezza anche per chi guarisce dal male. Roseline Kavira Lukando è seduta nella sua piccola casa di Butembo. Alle pareti sono appesi i ritratti dei parenti morti a causa del morbo: suo padre e sua madre, il marito, il figlio. «Mia madre è stata la prima ad ammalarsi, poi è toccato a mio padre. Io e mio marito siamo stati ricoverati lo stesso giorno e io sono rimasta in coma per più di due settimane. Quando mi sono ripresa mi hanno detto che ero l’unica ad essere sopravvissuta e che il mio bambino di due mesi era morto mentre io ero in terapia intensiva».
Il racconto è un parossismo della tragedia. Roseline prosegue: «E voi non potete neanche immaginare come sia la mia vita ora. Io devo nascondermi, a volte vado a dormire a casa di amiche perché la gente mi minaccia, mi lancia pietre, mi accusa di essere stata io ad aver infettato la mia famiglia e di aver ucciso tutti. Io non mi sono salvata, anzi, sono morta due volte: quando sono sopravvissuta al mio bambino e quando la comunità mi ha lasciato da sola con il mio dolore».
(Testo di Daniele Bellocchio – foto di Marco Gualazzini)