di Claudia Volonterio
La costruzione di una società più inclusiva è uno degli obiettivi a lungo termine che si è posta l’iniziativa “Never Alone, per un domani possibile”, lanciata nel 2015 nell’ambito dell’European Programme for Integration and Migration (EPIM), in collaborazione con diverse fondazioni italiane e internazionali. Insieme lavorano per sostenere i minori stranieri giunti in Europa, garantire il loro benessere e un corretto inserimento nel processo di integrazione. Ma il percorso verso l’inclusione passa anche dalla necessità di superare l’ostacolo delle narrazioni divisive sul fenomeno migratorio. Durante l’incontro Amref –Codaway tenutosi in streaming dalla Farnesina qualche settimana fa è intervenuta a questo proposito Tana Anglana, dell’iniziativa “Never Alone”, esperta di narrazioni, migrazioni e Africa. Anglana ha presentato un interessante kit di strumenti utile a migliorare il dibattito sulla migrazione, elaborato dall’International Center for Migration Policy Advocacy di Berlino (ICPA), tradotto e adattato al contesto italiano da Never Alone.
Anglana ha sottolineato quanto la nostra percezione di fenomeni complessi come quello migratorio sia influenzata dal tipo di narrazione che ci viene proposta dello stesso. Al fine di contrastare il più possibile una percezione della migrazione dominata dalla paura, occorre dunque partire ed agire sul modo in cui ci viene raccontata.
In generale “la narrazione è fondamentale per l’essere umano per dare senso alla realtà che lo circonda ed è per questo che ha un impatto così forte anche sulle percezioni. Il rischio è che narrazioni divisive e polarizzanti mettano in crisi il lavoro di costruire società più coese”, ha spiegato Anglana.
Ma come si è arrivati al punto che occorra solo un’immagine come quella dei barconi che domina l’informazione, per far scaturire nelle persone sentimenti fortemente negativi sull’immigrazione? Queste immagini, secondo l’analisi dell’ICPA “battono costantemente sui tasti della paura e della sicurezza”. Paura e sicurezza sono tra gli schemi mentali più frequentemente adottati quando si parla di migranti.
Secondo la medesima analisi, gli schemi mentali sono come delle lenti che indossiamo ogniqualvolta ci troviamo davanti a fenomeni complessi e che necessiterebbero invece di un approfondimento maggiore, per le innumerevoli sfumature intrinseche che li compongono, quali la migrazione o il cambiamento climatico. Questi schemi sono talmente potenti che, una volta interiorizzati, diventano la nostra chiave di lettura personale con il mondo. “La sfida è cercare di soppiantare questi schemi mentali divisivi e riuscire a generare un nuovo modo di pensare”, ha ribadito Anglana.
Ma come si può nel pratico cercare di contrastare e prevenire una narrazione tossica sulla migrazione, basata sulla paura, l’invasione e la minaccia? Analizzando il kit elaborato dall’ICPA, composto da dodici chiavi utili a riformulare la narrazione e a migliorare il dibattito sul tema, pensato per le organizzazioni che vogliono lavorare per una coesione sociale, emergono alcuni punti salienti.
Innanzitutto il tipo di interlocutore a cui rivolgersi. Per cambiare la narrazione non basta cercare di contrastare le posizioni anti immigratorie più estreme. Esiste infatti un gruppo di persone, che viene definito “centro fluido”, che non è particolarmente schierato sull’argomento (favorevole o non favorevole all’immigrazione), o così interessato ed è dunque più influenzabile dai media. Quest’ultimo possiede un forte valore potenziale nel tentativo di produrre il cambiamento.
Per Anglana, il centro fluido è “il bilanciere politico e culturale” che in Italia comprende circa il 48 per cento della popolazione. La sua fluidità è dovuta al fatto che le sue idee sono mutevoli sulla base di come determinati fenomeni vengono presentati dai media e di cosa ne pensa al riguardo l’opinione pubblica.
Una volta individuato l’interlocutore, bisogna rivolgersi allo stesso cercando di non anteporre subito la dimensione problematica di un fenomeno. Questo non significa negarla, ma aprire la comunicazione con il centro fluido, proponendo più riflessioni e schemi propositivi. “Bisogna comprendere quali sono i valori che il centro fluido protegge, isolare quelli positivi che, incrociati con i nostri, creano quell’intersezione che è lo spazio per un messaggio, un’opportunità per raccontare a queste persone quanto il lavoro della società civile li riguardi direttamente”, spiega Anglana. In pratica non bisogna mancare di riconoscere le preoccupazioni delle persone che stiamo cercando di coinvolgere nel dialogo. Coinvolgere di più il “centro” non significa escludere gli altri interlocutori, ma lavorare al fine di ampliare ed equilibrare il più possibile il dibattito. “Solo tentando di trovare una strategia condivisa si può cercare di arrivare ad un impatto collettivo”, ribadisce Anglana.
Per sviluppare un dibattito inclusivo e riformulare la narrazione occorre dunque uscire dalla propria bolla e cercare dei punti in comune con l’interlocutore, evitando di sottolineare solo le differenze, o concentrarsi su fatti o diritti, abbassando così il livello di tensione della discussione. L’alta temperatura che permea argomenti complessi, basti pensare al cambiamento climatico o ai vaccini, non fa altro che alimentare divisioni polarizzanti che minano la coesione sociale. Questa, da quanto emerge, comincia proprio dalla comunicazione.