editoriale di Raffaele Masto – Africa n°5-2013
L’Egitto è la dimostrazione di quanto il popolo, spesso, sia lontano dalla politica. Quasi certamente una buona parte della cosiddetta gente comune è stanca di quanto sta succedendo: precarietà, manifestazioni, scontri, violenze. Non solo: di solito la gente comune è molto più capace dei politici di vivere insieme. Intendo dire che la grande maggioranza musulmana dell’Egitto non avrebbe mai bruciato le decine di chiese cristiane del Paese. A rigor del vero, in certi luoghi i musulmani hanno aiutato i cristiani a difendere chiese e altre istituzioni. Intendo dire ancora che i musulmani più praticanti non disdegnano di vivere a contatto con giovani che invece vogliono più laicità, come avviene in qualunque società dove la tradizione cerca di resistere al “nuovo” che avanza. Eppure, su queste contraddizioni, l’Egitto è saltato letteralmente per aria, precipitando in una violenza che è l’espressione di un impossibile compromesso tra i politici, quelli interni e quelli esterni al Paese.
I due campi
L’impossibile compromesso, a livello politico, è quello tra chi vuole una società laica, con una religione non invadente, e chi invece aspira a uno Stato confessionale. Questi ultimi possono contare su un’organizzazione come i Fratelli Musulmani che, nel dopo-Mubarak, hanno formato un partito politico, il Partito Libertà e Giustizia, di cui Morsi era il capo prima di essere eletto Presidente. Illegali ma tollerati ai tempi di Mubarak, i Fratelli Musulmani si fanno forti di una diffusa attività caritativa e di beneficenza che ha procurato loro milioni di seguaci, complice anche la crisi economica che in Egitto ha picchiato duro. Quelli che invece aspirano a una società laica hanno una rappresentanza politica indebolita dalla frammentazione in una molteplicità di partiti. Sanno benissimo cosa non vogliono, ma fanno fatica ad avere un progetto, un programma. E dei leader all’altezza. Quando questi fautori di una società laica hanno vinto (prima contro Mubarak e poi contro Morsi) lo hanno fatto perché l’esercito ha ritenuto oggettivamente utile una loro vittoria.
L’esercito
Già, l’esercito! Un esercito con privilegi inaccettabili, pur rappresentando certamente la stabilità politica. I generali che, peraltro, già nell’era Mubarak erano i veri gestori del Paese, sono intervenuti per salvaguardare i propri privilegi. Anche se bisogna ammettere che sono dalla parte del popolo, della gente normale, la maggioranza cioè, e che non sono interessati a governare. Purtroppo, le scene di repressione che abbiamo visto in tivù fanno dei generali una sorta di mostro sanguinario con il quale è impossibile schierarsi.
Leader illuminati
In realtà il problema dell’Egitto – come di molti Paesi arabi lacerati da tensioni interne – è che avrebbe bisogno di politici illuminati, di leader che abbiano a cuore le sorti del loro popolo e che per questo motivo sappiano muovere leve e toccare nervi sensibili per far nascere dalla società il cambiamento; di leader che sappiano contare sui buoni sentimenti che di solito, come dicevamo all’inizio, risiedono negli animi del popolo, della gente comune, più capace di accettare compromessi di quanto lo siano i politici navigati o, peggio ancora, cinici e opportunisti. L’Egitto ci dimostra, ancora una volta, che, a soffiare sulle divisioni del popolo e a sfruttarle, si possono provocare disastri dai quali poi è difficile uscire.