“Come persona informata dei fatti attinenti all’assassinio dello studente italiano Giulio Regeni, agli inquirenti italiani dico che dietro precise garanzie legali posso collaborare affinché si arrivi alla verità, ma chiedo che da parte del governo italiano ci sia l’impegno di non recare danni all’Egitto come nazione, ma solo la volontà di punire i criminali”. A fare questa dichiarazione è Omar Afifi, ex generale egiziano dissidente indicato da alcuni media come l’autore delle e-mail inviate a La Repubblica che puntano il dito contro il capo della polizia criminale di Giza generale Khaled Shalaby come principale responsabile dell’omicidio del ricercatore italiano trovato cadavere al Cairo lo scorso 3 febbraio con evidente segni di torture sul corpo.
Afifi da ieri è entrato con forza nel circuito mediatico italiano con articoli sulle sue rivelazioni pubblicati dai maggiori quotidiani del Paese. Contattato da askanews, l’ex generale accusa direttamente i vertice del regime del Cairo e sostiene che il presidente Abdel Fattah Al Sisi “sapeva tutto”, anzi sarebbe stato il capo dello Stato a prendere la decisione di far trovare il cadavere del povere Regeni “dopo le insistenza dell’Italia sulla sorte del ragazzo”.
Secondo la sua ricostruzione, infatti, le pressioni dell’allora ministro Federica Guidi in visita al Cairo all’inizio di febbraio hanno spinto il capo dello Stato a cercare in fretta una via d’uscita: “Al Sisi ha convocato una riunione nel suo ufficio” alla quale “hanno preso parte il capo del suo gabinetto Abbas Kamel, vera mente pensante del regime, il ministro dell’interno Magdi Abdel Ghaffar e il capo dell’intelligence militare”. E durante l’incontro “Al Sisi, molto imbarazzato dall’insistenza della ministra italiana ha chiesto ai suoi di risolvere la questione”. I convocati quindi “in fretta e furia hanno optato per il ritrovamento del cadavere”, pensando di trovare poi qualche spiegazione di comodo circa la causa della morte.
Afifi parla al telefono dagli Stati Uniti. L’uomo, appena tre giorni dopo il ritrovamento del cadavere aveva rivelato sul suo profilo Facebook particolari sulle torture subite da Regeni e solo ieri rilanciate con forza dai media italiani. L’ex generale che afferma di essere “amico personale” di uno dei membri della delegazione di magistrati e inquirenti egiziani che si trovano a Roma in questi giorni, racconta la sua fuga dall’Egitto nel 2008: andato via perchè “non sopportavo più le torture praticate dal regime” di Mubarak. Assicura di essere lui, assieme a Wael Ghoneim (eroe della primavera egiziana nel 2011) ad avere “scritto il programma” del movimento di protesta sfociato nella caduta dl regime dell’allora presidente Hosni Mubarak. Un personaggio enigmatico, accusato in patria di essere filo-sionista e filo-americano, ma anche osannato da altri per il suo attivismo a difesa dei diritti umani.
Sulla morte di Regeni, Afifi dice di non avere dubbi, perchè “le informazioni in mio possesso, oltre alla mia esperienza in polizia, sono il frutto del lavoro di un gruppo di amici, un vero e proprio gruppo di collaboratori e attivisti”.
Confermata la ricostruzione fatta da lui stesso il 6 febbraio – praticamente identica a quella inviata per mail da un anonimo a La Repubblica – l’ex generale sottolinea che “i particolari sui metodi di tortura li avevo dati prima che fosse effettuata l’autopsia”. Siamo di fronte, dice, a “metodi non propri della polizia, che è professionale e sa quando fermarsi, perchè tratta il detenuto come un semplice criminale o una persona che ha commesso un reato. Diverso il caso degli uomini della Mukhabarat (l’intelligence militare), militari che ti vedono come un nemico o una spia e non vanno per il sottile”. Quindi, ribadisce, c’è “l’impronta della Mukahabarat” nel supplizio subito dall’italiano. Tra l’altro, aggiunge, gli organi di sicurezza sono quattro, e “tra di loro c’è una atavica e spietata rivalità” che potrebbe aver influito sulla gestione dell’arresto di Regeni.
L’uomo che oggi di mestiere fa il legale e sul suo profilo Fb si definisce “l’avvocato della gente”, afferma di essere “amico personale” del generale Alaa Azmi, vice-direttore delle indagini criminali di Giza, che è uno dei membri della delegazione egiziana arrivata a Roma. Afifi assicura di avere “altre sorprese” in serbo, ma che queste arriveranno “solo al momento opportuno” per “non danneggiare gli interessi del mio Paese”.
(07/04/2016 Fonte: Askanews)