Le promotrici di un’iniziativa che anche la nostra rivista ha sottoscritto analizzano la debolezza e al contempo la pericolosità – per i profughi e anche per noi italiani ed europei – della condotta dell’attuale governo, «sotto il segno dell’impreparazione, dell’inadeguatezza e della tracotanza». “Africa” invita i suoi lettori ad aderire.
Mentre a giugno la nuova posizione governativa sulla politica delle immigrazioni si avvitava con la drammatica vicenda della nave Aquarius, salvata poi dalla Spagna, un gruppo di docenti delle università italiane ha dato avvio ad una fase di resistenza e controinformazione di civiltà che sta continuando e ampliandosi.
A partire dal lancio della Presa di posizione pubblica contro la politica in tema di migrazioni del governo Conte-Salvini-Di Maio, del 21 giugno scorso, si è raccolta (ed è tuttora in corso) una massa critica di oltre 2300 sottoscrittori. Ogni 1000 sottoscrizioni, una copia cartacea viene inviata al Presidente Sergio Mattarella, e Camera e Senato, alle cui Presidenze era stata inviata, hanno comunicato che le rispettive Commissioni costituzionali ne discuteranno alla ripresa dei lavori dopo le vacanze estive.
La prima spedizione a Sergio Mattarella era avvenuta la settimana precedente quella sua telefonata al Premier Conte intimando (per la prima volta) lo sbarco dei migranti dalla nave Diciotti.
Un mese e mezzo più tardi, mentre scriviamo queste righe, ritroviamo protagonista dell’escalation la stessa nave della guardia costiera italiana, sequestrata per più giorni in altro porto, quello di Catania, con altro carico di profughi, liberati dopo l’avvio dell’indagine per sequestro, arresto illegale, abuso d’ufficio sul ministro responsabile dello strappo istituzionale di tutti i codici, marittimi, internazionali e umanitari. Stavolta, oltre alla Chiesa cattolica, Paesi di storici esodi migratori si sono offerti come luoghi d’accoglienza, Albania e Irlanda, e già Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) è nuovamente in prima linea per ammonire circa l’irrealizzabilità di automatismi presunti in tal senso: per le leggi vigenti e il Regolamento di Dublino, trasferimenti in altri Stati son possibili solo se i migranti esprimano questa specifica volontà.
Dietro la politica per slogan
Le puntate di questa saga sono dunque sotto il segno dell’impreparazione, dell’inadeguatezza e della tracotanza dell’attuale compagine governativa italiana, che nei pochi mesi dal suo insediamento ha mostrato un potere distruttivo e un’intossicazione della verità senza precedenti. Millantando pericolosamente le variazioni sul tema immigrazione come “successi” di fronte all’inerzia dell’Europa, sono aizzate paure arcaiche e viscerali, si dà in pasto “il nemico” in mancanza della capacità di una gestione concreta della crisi economica che attanaglia Italia e gran parte dell’Europa.
Mentre Ue e Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) fan notare la sproporzione delle pretese italiche rispetto agli effettivi numeri degli sbarchi – nel 2017, a causa degli accordi stretti tra il ministro degli Esteri del governo Gentiloni, Minniti, con Libia e Turchia, secondo l’Ocse quei 119.000 immigrati in Italia nel 2017 rappresentano il 34% dei migranti rispetto all’anno precedente, ovvero il 22% in meno rispetto al 2015. Si svela così, con la statistica, come la politica del ministro degli Interni sia giocata oggi su una percezione altrettanto sproporzionata tra presenza percepita ed effettiva di immigrati nel Paese (vedi tabella nella pagina), mentre la politica Sovereign Borders (ovvero lasciar affogare quanta più gente possibile in mare) dell’attuale governo australiano diventa, insieme alle blindature delle frontiere di terra dei Paesi di Visegrad, il nuovo modello ideale, che potrebbe farsi fattuale martedì 28 agosto, quando, al Palazzo della Provincia di Milano, Salvini incontrerà il ministro ungherese Orban. In una tale prospettiva, sembra così condivisibile l’ipotesi (vedi Enrico Casale in questo blog) che questo mosaico, i cui tasselli vanno via via a incastrarsi tra loro, non sia che un percorso mirato ad esasperare le tensioni con l’Europa per facilitarne un distacco.
Credibilità e disinformazione
Sullo scoglio migranti sta naufragando anche la credibilità europea. Un percorso culturale italiano ed europeo di costruzione e rispetto dei diritti umani lungo 70 anni non è svilito dalla sola pax minnitica: questa di fatto non si discostava da un compromesso cui l’intera Europa è scesa finanziando con milioni di euro regimi insostenibili, tra Turchia e Libia, e legittimando ufficialmente pratiche inumane nel rigettare nei lager libici i fuggiaschi. L’Italia si è limitata a ripristinarla, anche di recente, regalando alla Libia motovedette e mezzi militari di pattugliamento coste, mentre fondi europei ottenuti all’origine per l’accoglienza vengono stornati, a favore del respingimento: clamoroso il caso del Comune di Riace – esemplare modello d’integrazione tra abitanti e nuovi arrivati che, oculatamente, è oggi privato di risorse e sull’orlo del crollo economico.
Il tutto avviene in un crescendo di voluta disinformazione. Mentre si dirotta a forza l’attenzione sull’ultimo tratto di mare, non si parla della competizione impari delle imprese europee all’arrembaggio in Africa. Queste, in buona parte dei casi, continuano a sfruttare le ricchezze naturali e le debolezze storiche di quel continente senza riprodurre un volano economico virtuoso. Proprio quello che, di certo, indurrebbe gli africani a non scegliere più di abbandonare i propri affetti e le proprie terre d’origine, per mettere a repentaglio la vita, propria e dei propri cari, addirittura dei figli, arrischiandosi a mandarli da soli purché escano da inferni senza prospettive.
Né si parla più delle responsabilità occidentali nel legittimare regimi autoritari e nel rinfocolare guerre, grazie ad un mercato delle armi sempre più in salute, laddove si commercia legalmente con Paesi come l’Arabia Saudita, che notoriamente rifornisce le parti in conflitto in Africa e Medio Oriente, senza che alcuna misura venga presa, neppure cogliendo l’occasione della recente strage di bambini nello Yemen, per prenderne le distanze (si veda per i pregressi l’articolo di Gianni Rosini su Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2017).
Mentre qui si cincischia con le definizioni (fra migranti economici, richiedenti asilo, profughi), dal 2017 a oggi ben sette sono stati i conflitti armati consumatisi nella sola Africa subsahariana: di questi ancora attivi son quelli in Mali, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo e Somalia, mentre quelli in Etiopia e Sud Sudan sembrano al momento sventati. La situazione è estremamente tesa in Burundi, Camerun, Gambia, Kenya, Lesotho, Sudan e Zimbabwe, per non dire dell’Africa occidentale in cui le attività transnazionali dei gruppi estremisti islamici (specie nella fascia del Sahel) sono strettamente intrecciate ai fenomeni di povertà estrema e ad una fragilità economica strutturale tale da fiaccare quelle capacità di resilienza che avevano garantito la sopravvivenza ai popoli della regione. Una instabilità si sta dunque cronicizzando in Africa per incapacità di governo e corruzione, per politiche economiche inadeguate, e dietro cui si staglia la drammatica intensificazione del cambiamento climatico incontrastato, che, proprio sulle fasce tropicali, in base a tutti gli studi in corso, stringerà la sua morsa nei prossimi decenni se non si metteranno ben altre priorità sul tavolo.
I conti da pagare e la cura
Con l’avvento del nuovo governo in Italia, il timore del cambio di passo ha prodotto la rottura della pax minnitica e numerose imbarcazioni sono state “rilasciate” da Turchia e Libia. Secondo dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, nonostante la diminuzione degli arrivi resti nella media, a questa è corrisposto un aumento senza precedenti delle morti in mare (nessuna statistica è possibile delle morti lungo i terribili percorsi tra deserti e lager) e in questa prima parte del 2018, delle 1546 vittime nel Mediterraneo, 883 sono state lasciate affogare sotto l’egida di questo governo: effetto diretto del bloccaggio dell’azione di soccorso delle ong con la loro demonizzazione come «vice-scafisti» e «taxi del mare».
Ciò, sostiene Oscar Camps, fondatore della prima nave soccorso Open Arms, «sta alterando il diritto marittimo internazionale con il consenso dell’Unione Europea che permette ai Paesi del Mediterraneo di negare l’approdo», mentre finanzia i Paesi di partenza – con milioni di euro il dittatore Erdogan o la Libia – per bloccare le migrazioni (intervista di Sandro Veronesi sul Corriere della Sera, 25 agosto 2018).
Eliminare le navi di soccorso non condanna a morte solamente centinaia e centinaia di persone, ma, come ha sottolineato il comandante della Lifeline, Claus-Peter Reisch, (intervista di Carlo Bonini su Repubblica, 14 luglio 2018) ha un effetto secondario, diversamente cruciale: quello di togliere visibilità a queste morti per mare. Sempre meno siamo informati su queste realtà perché si sequestrano occhi per testimoniare e soggetti per raccontare cosa avviene in un Mediterraneo sempre più cimitero marino. Mentre, per le navi commerciali, da questa politica non derivano certo minori problemi, come hanno rimarcato Lorenzo Bagnoli e Francesco Floris [v. Asso Ventotto: lo scenario si complica per le navi commerciali, 16 agosto 2018]: il Diritto del mare obbliga infatti anche le navi commerciali a prestare soccorso. Sicché numerose convenzioni rotte da questa politica, oltre a macchiare gravemente la nostra coscienza, implicheranno multe salate, che verranno pagate con soldi pubblici – e non impiegabili su altri fronti.
Riteniamo allora che a questo stato di cose presente occorra rispondere facendo nascere domande dotate di spessore e non solo sdegno. Pensiamo che il Paese sedotto da slogan, inondato da un’antipolitica a colpi di tweet sui social, abbia bisogno di una “cura di conoscenza” e che si possano mettere al lavoro competenze già esistenti e incontrate in questi mesi estivi.
Serve una crescita di consapevolezza collettiva di come si sia arrivati a tutto ciò e di cosa riservi questo tipo di scelte a un futuro non solo a breve termine: serve analizzare argomentazioni e prospettive. Andare dalle ragioni storiche delle ricorrenze di un passato xenofobico sommerso italiano (e di gran parte dell’Europa), alle spiegazioni scientifiche di come i flussi migratori hanno da sempre costruito le distribuzioni dei popoli, ibridando i loro geni, le loro lingue, le loro tecniche. Ma trattare anche le conseguenze delle scelte attuali sul futuro. Elaborare sul futuro della sostenibilità ambientale ed umana i possibili scenari cui portano diritto politiche siffatte in tema di migrazioni di popoli che investono ora e investiranno ancor più domani un pianeta sottoposto al severo cambiamento climatico in corso. Ma anche inventarne altri, di scenari, alternativi a queste politiche involutive.
Nella lista dei firmatari, che annovera eccellenti competenze, tra le quali anche numerosi insegnanti, medici e psicologi, oltre a organizzazioni della società civile che hanno sottoscritto compatte, non si esprime soltanto indignazione, ma si stanno creando sinergie per offrire risposte, testimonianze, direttrici.
Le migrazioni non saranno arrestate. Politiche miopi ed elettoralistiche potranno renderle più dolorose e incattivire i popoli (sia residenti, sia trasmigranti) oppure potranno affrontare il compito storico delle nostre generazioni: inventare e concertare modi consoni per governare in sicurezza ospitalità, integrazione e nuove forme di convivenza.
(Per il Comitato Organizzativo)
Elena Gagliasso e Cristiana Fiamingo
Stiamo raccogliendo ancora adesioni e invitando a contribuire ai prossimi progetti in/formativi.
Per aderire si invii Nome e Cognome, Affiliazione/Qualifica e Luogo di residenza o lavoro a: petizionemigranti@gmail.com
Elena Gagliasso è docente di Filosofia della scienza e Filosofia e scienze del vivente alla Sapienza Università di Roma, dirige il Centro di Ricerca interuniversitario Resviva e lavora sull’evoluzione di rapporti tra organismi e ambienti di vita.
Cristiana Fiamingo è docente di Storia e istituzioni dell’Africa dell’Università degli Studi di Milano in cui coordina il Centro di ricerca interdisciplinare SHuS «Sostenibilità e Human Security – agende di cooperazione e governance» e svolge ricerca in Africa australe.