di Federico Monica
Fra incertezze economiche e fragilità politiche il 24 giugno la Sierra Leone torna al voto per eleggere il presidente e il parlamento. La prima impressione che si ha osservando il quadro politico è quella di un dejà vu: a sfidarsi saranno infatti gli stessi candidati della scorsa tornata: Julius Maada Bio, presidente uscente del Sierra Leone People’s Party e Samura Kamara, sfidante dell’All People’s Congress uscito sconfitto per pochi voti nella sfida di cinque anni fa. Niente di nuovo sotto il sole: due partiti storici, separati più da questioni etniche e territoriali che ideologiche; l’SLPP radicato nelle regioni del sud-est e l’APC nel nord, due leaders di lungo corso che sembrano vampirizzare ogni possibile cambiamento.
Non sono nuove, purtroppo, anche le violenze e gli scontri che avvengono specialmente a ridosso di manifestazioni e comizi di una parte o dell’altra; quella che dovrebbe essere una festa della democrazia si tramuta spesso invece in un’occasione di scontro fra tifoserie opposte. Si tratta di eventi gravi ma sporadici, che si ripetono ad ogni appuntamento elettorale dal dopoguerra, ma che quest’anno hanno assunto un rilievo differente soprattutto dopo le sanguinose proteste dell’agosto 2022. Le violenze degli scioperi contro il carovita e la conseguente brutale repressione da parte delle forze di polizia hanno creato un punto di rottura nella storia del paese: dalla fine della guerra non si erano mai visti scontri di tale portata con morti lungo le strade, auto bruciate e coprifuoco. Ad andare in frantumi è stata l’idea del cosiddetto “never again” secondo cui i traumi della guerra erano talmente forti da non poter essere replicati. Anche questi eventi sono presto diventati terreno di scontro politico, con il governo che accusa le opposizioni di fomentare la violenza e voler precipitare il paese nel caos e, al contrario, parte della società civile e politica che imputa al presidente un uso smodato della forza nelle repressioni e la benevolenza verso pratiche a dir poco brutali.
Maada Bio, cinque anni di (poche) luci e ombre
Quella del pugno di ferro nell’uso della forza è una delle principali accuse e delle maggiori ombre che pesano sul quinquennio al potere del presidente Bio. Ex generale dell’esercito ed ex presidente golpista durante la guerra civile l’attuale leader è sicuramente un uomo d’armi più che un fine diplomatico. In molti, specialmente dalla società civile e dalle opposizioni denunciano l’aumento di casi di abusi, violenze e atti di repressione da parte di polizia e forze armate negli ultimi anni. Nelle scorse elezioni Bio aveva fatto della sua storia di “uomo forte” un punto cardine della sua proposta, promettendo con slogan netti di sradicare la corruzione e rimettere ordine nei conti del paese.
Cinque anni dopo sono proprio questi i punti deboli che rischiano di comprometterne la rielezione: i livelli di corruzione sembrano invariati tanto che una serie di scandali hanno coinvolto ministri uscenti nonchè il presidente stesso e la first lady accusati di abusare dei viaggi di stato. Allo stesso tempo la situazione economica è a dir poco complessa, con tassi di inflazione tra i più alti dell’Africa Occidentale e la perdita del potere di acquisto acuita dalle crisi internazionali che pesa sulla vita quotidiana di sempre più famiglie.
Un’opposizione ingessata
Nonostante alcuni provvedimenti storici come l’istruzione primaria gratuita, l’abolizione della pena di morte o della famigerata “libel law” contro la libertà di stampa il bilancio del governo Bio è percepito da molti come insoddisfacente e l’occasione per le opposizioni di ribaltare il risultato del 2018 sembrerebbe a portata di mano. Il condizionale è però d’obbligo in quanto l’APC si è dimostrato ancora una volta un partito governato da logiche di potere e regionali.
L’influenza dell’ex premier Ernest Koroma sulle decisioni politiche del partito è evidente e la scelta di riconfermare il suo delfino Samura Kamara, già sconfitto nel 2018, come candidato presidente ne è la controprova. Kamara è indubbiamente un candidato debole, percepito da molti come poco deciso ma soprattutto, a 72 anni, come troppo anziano per aspirare a un quinquennio da presidente. A ciò si aggiunge il processo in corso in cui è accusato di aver sottratto oltre due milioni di sterline durante il suo incarico come ministro degli esteri. Un processo strumentale, sostiene il suo partito, e le tempistiche “anomale” sembrano confermare questa ipotesi, ma comunque in grado di indebolire ulteriormente l’autorevolezza di un candidato già fragile. Un’occasione sprecata perché nell’APC i candidati di spessore in grado di dare una svolta alla politica del paese non mancherebbero. A partire dalla sindaca uscente di Freetown Yvonne Aki Sawyerr o dal candidato vicepresidente Chernor Bah, figure interessanti con visioni politiche nuove ma che non godono di appoggi forti nel partito a causa della loro etnia di appartenenza non in linea con la maggioranza Temne dell’establishment.
Il ritorno del bipolarismo
Nel 2018 la sfida fra i due partiti tradizionali era stata scossa dalla discesa in campo di Kandeh Yumkella, un ex funzionario ONU che dopo aver creato dal nulla il partito della “National Grand Coalition” riuscì a raccogliere addirittura il 10% dei consensi. Yumkella aveva radunato intorno a sé un ampio consenso soprattutto da parte di intellettuali e tecnici che vedevano nella sua figura autorevole e competente la speranza di un nuovo corso per la politica Sierraleonese.
Data la situazione politica ed economica la NGC avrebbe in effetti potuto raccogliere numerosi consensi fra i delusi del governo in carica e i supporters dell’APC stanchi del mancato rinnovamento, frantumando definitivamente il bipolarismo.
Dopo anni di opposizione in parlamento però pochi mesi fa arriva il colpo di scena: inaspettatamente Yumkella dichiara il suo sostegno al presidente Maada Bio e un accordo elettorale strategico fra i due partiti. Un colpo da maestro per il presidente uscente che aumenta le proprie chanches di vittoria anche grazie al consenso dell’NGC nella regione del nord-ovest, tradizionale feudo dell’APC, allo stesso tempo però il movimento di Yumkella esce fortemente indebolito da questo accordo percepito da molti come fumoso e incoerente. Negli ultimi mesi diversi esponenti del partito in contrasto con la scelta del leader sono stati espulsi o si sono dimessi, rendendo concreta l’impressione che l’NGC sia destinata a diventare uno dei numerosi partiti meteora, nati fra grandi speranze ma poi fagocitati dagli onnipresenti partiti tradizionali.
Giochi già fatti?
Tutto farebbe pensare ad elezioni straordinariamente aperte e dall’esito incerto, nonostante gli ultimi sondaggi diano il presidente in carica saldamente in testa e addirittura poco distante dalla soglia del 55% che gli permetterebbe di guadagnarsi la riconferma al primo turno. I sondaggi però, si sa, lasciano il tempo che trovano, specialmente in un contesto così polarizzato a livello regionale.
Quello che invece potrebbe rendere queste elezioni un mero appuntamento formale per riconfermare il presidente in carica è un fatto avvenuto negli scorsi mesi e visto da molti come una sorta di golpe bianco per riassicurarsi la rielezione: la riforma elettorale in chiave proporzionale e il conseguente ridisegno delle circoscrizioni.
Il nuovo mosaico dei seggi è infatti stato ricalcolato sulla base dell’ultimo censimento che presenta però errori palesi che vanno a modificare radicalmente i rapporti di popolazione fra le regioni del paese. Per fare un esempio la capitale Freetown, il cui continuo aumento devastante di popolazione è più che evidente da decenni, risulta aver subito un forte calo di residenti a vantaggio di varie regioni del sud, noti feudi dello SLPP. Le rimostranze dell’opposizione sono state solo parzialmente accolte, rimodificando i seggi sulla base di una media fra gli ultimi censimenti; una decisione salomonica che lascia non pochi dubbi sulla rappresentatività del parlamento che uscirà da questo appuntamento elettorale.
A ciò si aggiungono le interferenze denunciate dall’APC durante la fase di registrazione degli elettori: il sistema Sierraleonese prevede infatti che possa esercitare il diritto di voto soltanto chi completi una procedura di registrazione agli elenchi elettorali entro tre mesi dalle elezioni. E’ così che la fase di registrazione risulta altrettanto importante di quella del voto in sè: più i partiti riescono a mobilitare la propria base più avranno chanches di vittoria alle urne. E le opposizioni denunciano registri scomparsi, ritardi e sistematiche ostruzioni da parte della polizia alla registrazione degli elettori a Freetown o in aree del nord. In questo caso i giochi sarebbero già fatti e per Kamara le speranze sarebbero esigue.
“Bugie e tentativi di destabilizzare il paese” sostiene il presidente al termine di una corsa elettorale incendiaria e logorante ma allo stesso tempo noiosa e poco entusiasmante.
Dalla fine del conflitto la Sierra Leone ha dimostrato una fortissima maturità democratica, riuscendo a organizzare elezioni libere e trasparenti e vivendo in maniera ordinata diversi passaggi di potere; la speranza è che questo appuntamento ricco di dejà vu mantenga anche questa tradizione, qualunque sia il risultato finale.