Elogio del ciclismo africano

di AFRICA
ciclismo africano

In Burkina Faso si tiene la corsa più importante, in Senegal la più imprevedibile, in Ruanda la più prodigiosa. Ovunque i protagonisti sono ciclisti cresciuti sulla strada e decisi a scalare il cielo.

Tour du Sénégal 2018. Prima tappa (di otto), la Dakar-Niayes-Thiès: annullata. Causa: non c’era il medico e non c’era la seconda ambulanza. Particolari in cronaca: la partenza era prevista alle nove, corridori e tecnici si sono presentati alle nove e mezzo, le ammiraglie sono state consegnate alle dieci e mezzo, il comunicato dell’annullamento è stato firmato alle undici e quarantacinque. Il ciclismo africano è fatto così: o lo si ama o lo si ignora.

Niente può fermarli

Io lo amo. Lo amo dal primo momento in cui ne ho letto: l’algerino Abdel-Kader Zaaf che, in fuga con il connazionale Marcel Molines durante il Tour de France del 1950, lui lanciato verso la conquista della maglia gialla, l’altro proiettato verso la vittoria di tappa, improvvisamente sbandò, cadde, svenne, si riprese, saltò sulla bici e ricominciò a pedalare, ma nella direzione sbagliata, verso la partenza.

Lo amo dal primo momento in cui l’ho studiato: il tunisino Ali Neffati, che a diciotto anni si procurò una bici, due giorni dopo si iscrisse al Tour de France del 1913, correva con il fez, aveva freddo anche in pieno luglio, e si ritirò. Lo amo dal primo momento in cui l’ho frequentato: Tour du Faso 2006, centotto corridori di diciotto squadre, quindici squadre e tre continenti, e una quantità di storie, storie di vita a due ruote, con cui stipare l’etere, a cominciare da quella del nigerino Djibril Hassane, che due giorni prima del pronti-via ha spaccato la sua bici e allora ha corso con quella del suo allenatore, solo che il suo allenatore (e la sua bici) è alto una spanna più di lui. Lo amo dal primo momento in cui l’ho celebrato: Daniel Teklehaimanot, eritreo, il primo africano a indossare la maglia di migliore scalatore, a pois al Tour de France del 2016 e verde al Giro d’Italia del 2017.

Cose mai viste

In Africa il ciclismo è nato come eredità coloniale, un po’ dai francesi e un po’ anche dagli italiani (soprattutto in Eritrea). Il Burkina Faso era l’Alto Volta in cui Fausto Coppi si recò nel dicembre 1959 per disputare un paio di kermesse e partecipare a un paio di battute di caccia, contrasse la malaria, che non fu capita, intuita, diagnosticata e tantomeno curata – sarebbe bastato del chinino –, e il 2 gennaio 1960 morì.

Il Tour du Faso è, proprio per l’eredità e per l’organizzazione (francese, per decenni quella dell’Aso che dirige il Tour de France), la corsa meglio organizzata in Africa, dunque la meno africana che si possa immaginare. Sedotto da quel clima torrido, da quell’ambiente equatoriale, da quella genuinità culturale e da quella semplicità letteraria, domandai a un giornalista burkinabè quale fosse la corsa africana più avventurosa, mi rispose, senza incertezze, il Tour of Rwanda; gli chiesi perché, mi disse che in un’edizione si conoscevano sempre le sedi di partenza e talvolta anche quelle di arrivo, e che in un’altra edizione erano più numerosi i corridori arrivati nell’ultima tappa di quelli partiti nella prima. Davanti al mio stupore, mi spiegò che fra guerre, agguati, furti e ritardi, i corridori (e le biciclette) erano giunti a partenza già avvenuta, e così furono aggregati, di tappa in tappa, ovviamente con il tempo dell’ultimo in classifica. Esultai, ebbro di felicità ciclistica e democratica.

Teatro di strada

Ogni Paese africano ha la sua grande corsa a tappe: dal Marocco al Camerun, dall’Egitto all’Eritrea. I corridori italiani, che hanno cominciato a frequentare quel mondo di corse, ne rimangono affascinati: chi nella Tropicale Amissa Bongo in Gabon, chi al Tour of Rwanda, che oggi ha un livello di corsa e corridori infinitamente più alto del tempo in cui gli arrivi erano a sorpresa (e chissà che un giorno Giro, Tour e Vuelta non adottino, volutamente, quel metodo di improvvisazione agonistica), vincendo pregiudizi e preconcetti, ma apprezzando le doti fisiche degli atleti e la naturalezza sorridente degli abitanti, degli spettatori, dei bambini. Perché il ciclismo, a qualsiasi latitudine e longitudine, è sempre uno sport che va alla gente, che fa della strada (e delle case, dei campi, dei mercati) il suo teatro, e che ingigantisce un attimo (quello del passaggio del gruppo) in un ricordo, e che moltiplica un’emozione (una fuga, una crisi, ma anche una borraccia, un berretto) in un patrimonio. Eterno.

E siccome li amo, tengo anche ai corridori africani. E li seguo, e continuo a seguirli da lontano. Come Tsgabu Grmay Gebremaryam, etiope, ventisette anni, professionista dal 2012, quest’anno nella Trek-Segafredo. Sesto di nove figli, cinque maschi e quattro femmine, ha sempre corso, fin da piccolo, ma a piedi («L’Etiopia è il Paese dove correre è una necessità e non un’urgenza»). Però ha sempre respirato ciclismo, sia a casa («Prima il papà, corridore amatore, poi mio fratello Solomon, 10 anni più di me, corridore nella Nazionale etiope») sia al lavoro («Papà era gommista in un garage»).

Nuovi traguardi

In Africa si dice: se vuoi andare veloce, corri da solo, ma se vuoi andare lontano, corri insieme con qualcuno. Grmay voleva andare lontano, e così, fra corsa a piedi e corsa in bici ha scelto la bici. Selezionato prima per il Centro africano di ciclismo, poi in quello internazionale a Aigle, in Svizzera. In Africa si dice: mille passi cominciano sempre da uno. Già campione etiope e campione africano, è uno dei pochi corridori che, quando vuole allenarsi in altitudine, torna a casa. «A Mek’ele, settecento chilometri a nord di Addis Abeba, a più di duemila metri di quota. Solo che, da quando il ciclismo mi ha portato a correre in Europa o in Asia, dove le strade sono infinite, a casa le strade sono poche e mi sembra di pedalare in un cortile».

Per Grmay la bici è “passione”, il ciclismo “gioia”. Lui spiega: «Sono cristiano ortodosso. Per me Dio è dovunque, e non solo sulle montagne, che sono più vicine al cielo. Prego quando mi sveglio e quando vado a dormire, prima della partenza e dopo l’arrivo. Non sono preghiere per chiedere ma per ringraziare». Sorridente (“In Etiopia si dice: se hai un solo dente, usa quello per sorridere”), educato, disponibile, Grmay brilla per ottimismo e fiducia: «Il meglio deve ancora venire. Il Giro d’Italia era un sogno, ed è già un ricordo. Poi ho corso anche il Tour e la Vuelta. E un giorno, magari, vincerò perfino una tappa». In Africa si dice: la fretta non ha fortuna.

(Marco Pastonesi – foto di Raphaël Fournier e Marco Trovato)

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