di Enrico Casale
L’Eritrea festeggia oggi il 31° anniversario dell’indipendenza. Era il 24 maggio 1991 quando le milizie del Fronte popolare di liberazione eritreo entravano in Asmara dopo un trentennio di guerriglia. Due anni dopo, un referendum staccava definitivamente l’Eritrea dall’Etiopia. Da allora, la piccola nazione del Corno d’Africa ha vissuto una progressiva involuzione sul piano democratico ed economico.
Ma facciamo un salto indietro. Storicamente l’Eritrea è nata con il colonialismo. Prima dell’arrivo degli italiani non esisteva una realtà statuale né una specifica identità eritrea. Il territorio, al margine dell’impero etiope, era in parte occupato dai turchi e dai loro alleati egiziani. L’arrivo dell’Italia definì i confini del Paese e creò un’unità di quei territori fino allora periferici rispetto ai domini del negus. Concluso il periodo coloniale e l’occupazione britannica, l’Eritrea tornò nell’alveo etiope. La coscienza nazionale si era, nel frattempo, rinforzata. L’annessione ad Addis Abeba fu vista dagli eritrei come un’occupazione e come una prevaricazione. Così alla fine degli anni Cinquanta iniziò una guerra civile che durò fino agli inizi degli anni Novanta.
Conquistata l’indipendenza, sull’Eritrea si concentrarono grandissime aspettative. Molti analisti guardavano al piccolo Paese del Corno d’Africa come a una democrazia nascente. Chi negli anni aveva sostenuto la lotta degli eritrei (tra i quali molti italiani), vedeva nel suo leader Isayas Afewerki, un nuovo Nelson Mandela.
Le aspettative sono andate progressivamente svanendo. La guerra contro l’Etiopia della fine anni Novanta (che causò migliaia di morti) e la progressiva trasformazione delle istituzioni in una dittatura sempre più spietata hanno portato la nazione a un isolamento internazionale e a un impoverimento della sua economia. I giovani, costretti a essere arruolati in un servizio militare a tempo indeterminato, hanno iniziato a fuggire verso l’Europa. Decine, se non centinaia, di essi sono morti nei deserti o nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Nel frattempo il presidente e il suo governo stringevano il Paese in una morsa d’acciaio facendolo diventare una sorta di Corea del Nord sulle sponde del Mar Rosso. Negata l’entrata in vigore della Costituzione, in assenza di un dibattito politico (costantemente represso) e di una stampa libera, il regime ha assunto i torni di una feroce dittatura. Neanche la pace con la vicina Etiopia e l’apertura della sua economia hanno portato a una democratizzazione interna.
Lo scoppio della guerra in Tigray ha visto i soldati di Asmara di nuovo in prima linea. Accusati di violenze su civili e stragi i soldati eritrei hanno occupato ampie aree ai confini con l’Etiopia. Aree sulle quali mantengono tuttora una certa influenza, nonostante il conflitto sia entrato in una fase di rallentamento. Dopo anni di isolamento, Asmara si sta avvicinando alla Cina, Paese poco sensibile ai temi legati ai diritti umani, ma molto attento alle dinamiche economiche e, di conseguenza alle potenzialità dell’Eritrea che ha una invidiabile posizione commerciale sul Mar Rosso. Il riposizionamento geostrategico apre nuove opportunità all’Eritrea. Ne trarrà vantaggio anche la popolazione?