Difficile vedere anziani a Mbabane, un po’ perché la città è giovane per definizione, come spesso lo sono le capitali africane, un po’ perché la vecchiaia in Eswatini è un lusso che pochi si possono permettere. La situazione non è particolarmente differente nelle zone rurali.
Il disastro pandemico tanto temuto in Africa non è ancora avvenuto e forse, Sudafrica a parte, il continente nero sarà risparmiato dai numeri che hanno caratterizzato altre parti del mondo travolte dal covid-19. Tuttavia c’è un’epidemia in corso da molti anni che desta inevitabilmente molta preoccupazione nelle aree colpite.
Radiografia del Paese
In Eswatini, un piccolo regno al confine tra Sudafrica e Mozambico, 1.100.000 abitanti, il 27,3% della popolazione tra i 15 e i 49 anni è malata di HIV (UN-Aids, 2018). L’ex Swaziland (il re ne ha cambiato il nome nel gennaio del 2018) è lo Stato al mondo con la maggiore prevalenza di HIV tra la popolazione. L’epidemia è generalizzata: significa che colpisce tutta la popolazione, anche se alcuni gruppi come le prostitute, le ragazze adolescenti, le giovani donne e gli omosessuali (in un Paese in cui l’omosessualità è illegale) sono più colpiti di altri. Di questi, circa il 90% ha avuto una diagnosi e un trattamento antiretrovirale. Le cure hanno successo ma la dimensione del fenomeno è tale da renderlo comunque incontrollabile. Uno dei tanti, tristi record del Paese ad esempio è il tasso di HIV tra le prostitute, che supera il 60%. Eswatini appartiene al gruppo di Paesi con reddito medio-basso (il 63% della popolazione è considerato in condizioni di povertà) e l’aspettativa di vita è di soli 58 anni.
Il pericolo dello stigma
Diverse sono le strategie di contenimento della malattia, dalla diffusione di condom alle campagne di advocacy e sensibilizzazione, con risultati positivi che però si innestano in una condizione generale di epidemia conclamata. Va tenuto conto poi di due fattori determinanti: lo stigma verso i malati e il basso livello di registrazione dei bambini alla nascita. Lo stigma, tipico di molti Paesi anche dell’Africa subsahariana, impedisce a persone che contraggono il virus di informare rispetto alle modalità del contagio: e quando l’informazione pure non manca lo stesso personale sanitario finisce per mettere in gioco comportamenti non rispettosi (gossip, allontanamento). I partecipanti ad una ricerca di Lyons del 2019 hanno riferito di essersi accorti che gli operatori sanitari consapevoli dell’orientamento sessuale dei pazienti mettevano in gioco trattamenti più scadenti. Gli stessi hanno poi ammesso di essere oggetto di gossip al punto da tendere ad evitare l’assistenza sanitaria. Sempre i partecipanti a questa ricerca, infine, hanno dichiarato di essere spesso discriminati dagli stessi membri della famiglia.
Bambini fantasma
Azioni di prevenzioni e di informazione sono iniziate negli ultimi anni dopo che nel 2014 una ricerca ha dimostrato che i giovani in Eswatini avevano (e ancora hanno) scarse conoscenze su come prevenire l’HIV. Solo il 49% delle giovani donne (età 15-24 anni) e il 51% dei giovani uomini hanno dimostrato una conoscenza adeguata su questo argomento. In Eswatini, poi, circa un bambino su due non viene registrato alla nascita. Questo fenomeno, dovuto a diversi fattori (mancanza di uffici di registrazione e di procedure di registrazione) fa sì che una fetta importante di popolazione non esista dal punto di vista anagrafico e dunque non possa godere dei diritti di cittadinanza. Questo si ripercuote sia sui diritti alla salute che su quelli alla custodia e al supporto genitoriale o tutoriale. Qui sono moltissimi gli orfani di genitori morti a causa dell’HIV. I dati sono in questo caso contrastanti, ma è opinione diffusa che circa 100.000 bambini vivano in gruppi in condizioni definite di no-adults childhood (infanzia senza adulti): per questi bambini è stato previsto un servizio che negli anni ha cominciato a dare qualche risultato.
I centri di cura di vicinanza
Un’azione importante per il Paese è stata l’istituzione dei cosiddetti Neighborhood Care Points (NCP), ovvero dei Centri di cura di vicinanza, comunità in cui le persone si organizzano per fornire assistenza agli orfani e ai bambini in condizioni di vulnerabilità. Questo servizio può avere la forma di una casa, di una chiesa, di un capannone, di una scuola, a seconda del rifugio disponibile. Alcuni NCP iniziano sotto un albero, fino a quando una struttura coperta si rende disponibile. Si tratta di luoghi che forniscono supporto emotivo e cura, insieme a un pasto regolare ed equilibrato, al fine di garantire una migliore nutrizione, salute e servizi igienico-sanitari per i bambini e le bambine. Le opzioni offerte dagli NCP includono dunque anche un riparo di base in caso di pioggia, vento e freddo, la distribuzione di abbigliamento adeguato al freddo invernale, la proposta di attività di gioco per lo sviluppo dei bambini, trattamenti di primo soccorso e assistenza sanitaria di base, attività didattiche per fornire competenze di vita e costruire resilienza. E poi teatro, canto e opportunità sportive. I centri offrono infine anche sensibilizzazione sull’HIV e protezione da abusi, attività di giardinaggio e legate al mantenimento di piccoli capi di bestiame (potenziali fonti economiche), sostegno psicosociale e consulenza per bambini con bisogni e diritti speciali.
Immaginare il futuro
In Eswatini, gli NCP sono stati istituiti all’inizio del 2001 nel distretto di Hhohho con il sostegno dell’UNICEF e della World Vision. Da lì in poi si sono sviluppati e diffusi nelle altre regioni del Paese anche in forza del volontariato e dell’impegno delle comunità locali. UNICEF riferisce che il costo medio per aprire un NCP è di 8.560 dollari americani. Naturalmente la situazione può variare in base ai diversi fattori (ubicazione, fornitura di alimenti, appalti) che sono coinvolti nell’organizzazione del servizio. Oggi, a distanza di quasi 20 anni, e con nuove emergenze che si aggiungono all’HIV (non solo il covid-19 ma anche la crescente siccità nelle zone pianeggianti), una nuova azione politica può e deve essere messa in pratica, per tornare a valorizzare una pratica che ha certamente consentito un contenimento del problema e una prima, rapida risposta alle necessità delle bambine e dei bambini. Una importante raccomandazione che il Paese ha ricevuto dalla Banca Mondiale è quella di investire sul capitale umano coinvolgendo l’International Bureau of Education dell’Unesco. La crescita del Paese, dunque, secondo i più importanti ricercatori mondiali, potrà passare solo da un sistema di sicurezza sociale inclusivo, adeguato ad affrontare la sfida della povertà e delle conseguenze che essa comporta. Il Paese si trova al bivio, potendo avviare un percorso di transizione. Un sistema di servizi adeguato può contenere l’epidemia di HIV e l’investimento sui giovani può portare ad uno sviluppo della forza lavoro. Affinché il Paese utilizzi questo potenziale, gli investimenti necessari devono essere fatti nell’educazione e nello sviluppo delle competenze. Per rendere ancora più sicuro l’investimento, sarebbe necessario un sostegno adeguato ai poveri e ai soggetti vulnerabili. Per cogliere queste opportunità, è diventata necessaria e non procrastinabile un’implementazione coerente delle politiche esistenti e un programma di sviluppo trasformativo per mettere il Paese su una traiettoria di crescita e sviluppo accettabile.
(Cristian Fabbi, IBE-UNESCO Senior Fellow in Early Childhood Care and Education)