A un anno esatto dall’inizio delle ostilità nel Tigray, il governo etiopico ha dichiarato lo stato di emergenza in risposta all’avanzata delle forze del Fronte popolare di liberazione (Tplf), che si sarebbero unite all’Esercito di liberazione Oromo (Ola), per marciare verso Addis Abeba. Ricordando oggi le vittime dell’attacco al Comando Nord dell’esercito federale da parte del Tplf, che innescò la risposta militare del governo, il premier ha accusato le forze del Tigray e i combattenti oromo dell’Ola di voler “distruggere il Paese”, non solo militarmente, ma anche con azioni di propaganda volte a “facilitare il percorso affinché il destino dell’Etiopia sia quello della Libia e della Siria”.
Nel decreto di proclamazione dello stato di emergenza il governo afferma di ricorrere a tale misura perché “il gruppo terroristico Tplf e i suoi complici stanno collaborando con forze straniere per indebolire e persino distruggere l’Etiopia”, ponendo così “gravi minacce alla sovranità e alla sopravvivenza del Paese”. Il provvedimento, che rimarrà in vigore sei mesi, è stato adottato dopo che il Tplf ha annunciato di aver preso il controllo delle città di Dessie e Kombolcha, nella regione Amhara, distanti circa 400 chilometri dalla capitale e situate lungo l’autostrada A2 che porta ad Addis Abeba. Subito dopo la conquista di questi due centri strategici, il portavoce del Tplf, Getachew Reda, ha detto alla Bbc che le forze del Tigray si sono unite a quelle dell’Ola, che nei giorni scorsi avevano conquistato Kemise, anche questa località situata lungo la A2, a circa 325 chilometri dalla capitale.
Oggi, il portavoce dell’Ola, Odaa Tarbii, ha detto alla France Presse che obiettivo dell’organizzazione è rovesciare il governo di Abiy, definendo la sua uscita di scena “una conclusione scontata”, e nei giorni scorsi il portavoce del Tplf, Getachew Reda, non ha escluso una marcia su Addis Abeba: “Se è quello che serve per rompere l’assedio sul Tigray, perché no?”. Ieri, le autorità locali di Addis Abeba hanno invitato i circa 5 milioni di abitanti a registrare le proprie armi e prepararsi a collaborare con le forze dell’ordine per difendere i propri quartieri, annunciando anche la creazione di posti di controllo in diverse zone della città.
Una situazione per cui l’ambasciata americana ha invitato i propri concittadini “a valutare se prepararsi a lasciare il Paese” e che secondo il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, mette a rischio “la stabilità dell’Etiopia e di tutta la regione”.
A sua volta, Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione africana, ha dichiarato di seguire con “profonda preoccupazione l’escalation dello scontro militare” in Etiopia, esortando ancora una volta tutte le parti “a salvaguardare l’integrità territoriale, l’unità e la sovranità nazionale” e invitando “a impegnarsi nel dialogo per cercare una soluzione pacifica nell’interesse del Paese”. A tal proposito, il presidente della Commissione dell’Unione africana ha chiesto “l’immediata cessazione delle ostilità, il pieno rispetto della vita e dei beni dei civili, nonché delle infrastrutture statali” e invitato inoltre le parti a sollecitare i propri sostenitori contro “atti di rappresaglia contro qualsiasi comunità e ad astenersi da discorsi di odio e incitamento alla violenza e alla divisione”. Mahamat ha infine ricordato alle parti i loro obblighi internazionali in materia di rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, con particolare riguardo “alla protezione dei civili e alla garanzia dell’accesso all’assistenza umanitaria da parte delle comunità bisognose”.
Era il 4 novembre 2020 quando il premier Abiy ha lanciato un’operazione militare che nelle sue intenzioni doveva essere “rapida e mirata”. Invece, si è trasformata in un lungo conflitto, segnato da massacri, stupri di massa e il rischio che si diffonda la carestia.
Il primo ministro etiope ha affermato che il suo obiettivo era quello di disarmare i leader del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), il partito tigrino che ha dominato la politica nazionale per tre decenni prima che Abiy entrasse in carica. Il casus belli è stato un attacco dei miliziani tigrini a una base militare dell’esercito etiope
Dopo l’offensiva delle forze armate etiopi, i tigrini hanno lanciato in estate una controffensiva che li ha portati a riconquistare l’intera regione e a invadere parte dell’Amhara e dell’Afar, regioni confinanti. Nelle ultime settimane l’esercito federale è tornato all’attacco bombardando la capitale regionale Macallé e alcuni centri strategici. Il portavoce del Tplf, Getachew Reda, non ha escluso una marcia su Addis Abeba, dicendo all’Afp: “Se è quello che serve per rompere l’assedio sul Tigray, perché no?”.
Più di 400.000 persone nel Tigray hanno “varcato la soglia della carestia”, ha detto un alto funzionario delle Nazioni Unite al Consiglio di sicurezza a luglio, e da allora le condizioni sono peggiorate. I servizi di base tra cui elettricità, banche e telecomunicazioni “vengono negati dal governo etiope”, ha detto un portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti a settembre. Gran parte dell’Etiopia settentrionale è soggetta a un blackout delle comunicazioni e l’accesso per i giornalisti è limitato, rendendo difficile la verifica indipendente delle affermazioni sul campo di battaglia.
All’inizio del mese scorso, l’Afp ha documentato morti per fame in molte parti del Tigray, citando documenti interni di gruppi di aiuto. Il governo incolpa il Tplf di bloccare gli aiuti, affermando che le sue incursioni nell’Afar e nell’Amhara hanno ostacolato le consegne. Centinaia di migliaia di civili sono stati sfollati a causa dei combattimenti lì, suscitando il timore che la sofferenza su larga scala possa diffondersi ben oltre il Tigray.
Il governo di Abiy ha inquadrato la guerra come “una operazione per ristabilire la legge” e ha rigettato gli sforzi di mediazione, compresi i primi appelli degli inviati di alto livello dell’Unione africana per colloqui con i leader del Tigray. Ad agosto l’Unione africana ha nominato l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, alto rappresentante per il Corno d’Africa, nell’ambito di un’iniziativa volta a promuovere colloqui per la pace e la sicurezza nella regione. Colloqui che tuttavia, alla luce dell’evoluzione della situazione sul campo, possono ormai dirsi definitivamente naufragati.