Di Gianfranco Belgrano
La questione è datata, lo ammetto, eppure continua a colpirmi, forse perché rimanda a incongruenze profonde delle nostre società. Qual è la differenza che passa, se passa, tra un migrante e un expat.
Piccolo passo indietro. Qualche mese fa mi trovavo a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Una città particolare dove il progresso ha trovato risorse e spazi di applicazione, forse anche ispirazioni, difficili da ritrovare tutte in uno stesso posto. Gli Emirati, così come gli altri ricchi Paesi del Golfo, stanno provando a diversificare l’economia perché non dipenda esclusivamente dagli idrocarburi. E fra le città dei sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, Abu Dhabi e Dubai sono sicurmente quelle che si sono mosse prima e meglio. Secondo stime correnti, Dubai è soprattutto una metropoli abitata da cittadini stranieri; il rapporto potrebbe benissimo essere di dieci stranieri per un emiratino. Ma qui non importa il dato preciso.
Di fatto, emiratini a parte, la città è divisa nell’immaginario collettivo tra expat e migranti, dove gli expat sarebbero generalmente occidentali impiegati nei servizi e in posizioni manageriali, oppure in posti ad elevata specializzazione, mentre i migranti sarebbero asiatici e africani impiegati nelle fabbriche, nell’edilizia, nella ristorazione e nelle pulizie. Uso il condizionale non a caso, perché questa immagine non tiene conto dei tanti asiatici che occupano posizioni manageriali, né degli imprenditori africani che hanno fabbriche e loro uffici a Dubai. E tuttavia questo è ciò che l’immaginario suggerisce.
Cambio scena. Ripenso a me stesso a Londra appena finiti gli studi che lavoro in un ristorante di Paddington e mi chiedo: ero un migrante o un expat? Perché l’idea che mi pare ormai chiaramente emergere è che mentre “expat” sembra portare con sé una connotazione esclusivamente positiva, il termine “migrante” appare più controverso, più merce politica.
A questo punto della lettura, i più curiosi farebbero un giro su internet, per trovare risposte certe. Vi risparmio un po’ di tempo: la questione è apertissima ad interpretazioni di segno opposto, in rete si trova di tutto, tranne che risposte definitive.
Torno alle mie considerazioni: io che lavoro a Paddington ero un migrante (se preferite un immigrato o un lavoratore straniero) oppure ero un expat, anche perché dal ristorante passai all’ufficio? E un ivoriano che si trasferisce in Italia per lavorare come informatico è un migrante o un expat? E se il collega del cittadino ivoriano seduto nella scrivania accanto fosse uno statunitense, cosa sarebbe?
Questi che propongo sembrano semplici esercizi teorici, ma è sulla base di questi esercizi, legati a pregiudizi e discriminazioni, che oggi si impostano intere politiche di inclusione o esclusione.
Non voglio lanciarmi in inutili voli fantastici e lascio il mondo che vorrei – uno e aperto – alla mia sfera emotiva. Con la mia parte razionale devo riconoscere che le società che l’uomo ha costruito oggi funzionano con barriere e porte girevoli che lasciano il passaggio libero a seconda del tipo di passaporto posseduto e dei soldi sul conto corrente. Con il concreto sospetto che per essere expat o migrante contino anche il colore della pelle.
Editoriale del numero di settembre -ottobre 2023