«Il suo non è un racconto, è una sorta di realtà aumentata».
Arriva sempre in taxi e si vede subito che lei non è del solito gruppetto delle case popolari di Mirafiori: troppo smart, troppo fashion, ma soprattutto troppo sorridente. Prende il figlio, risale sul taxi e se va in gran fretta. Sempre così, finché un giorno le dico: «Idea l’a need» (ci vorrebbe un’idea – uno slang nigeriano). Lei è sorpresa, parliamo degli Igbo, della guerra del Biafra, degli antenati, del crollo di un mondo, della sua agadi-nwanyi (protettrice).
Con le sue parole mi porta nel villaggio di Ukwu, tra gli spiriti della foresta malvagia. Ricorda la caccia notturna con le reti dei pipistrelli della frutta, l’arrivo di ebola e dei rifugiati dal Camerun. La fuga verso Lagos, Benin City, il viaggio, la strada e la liberazione dal vodu di Oba Ewuare.
Ma il suo non è un racconto, è una sorta di realtà aumentata: sei lì quando parla della traversata del lago (Mar Mediterraneo), quando ricorda i giorni in cui in Libia le guardie le dicevano di lavarsi (significava che volevano abusare di lei), sei lì quando passa le notti nel ghetto di Rignano Garganico, quando incontra una signora (suora) dal volto felice che l’aiuta a imparare l’italiano, sei lì quando nasce Jerrik.
Sorride, ora capisco perché non è del posto, ha una strana sindrome: è una portatrice sana di felicità.
Fabrizio Floris, una laurea in Economia e un dottorato di ricerca in Sociologia dei fenomeni territoriali e internazionali, è membro della cooperativa “Labins, laboratorio di innovazione sociale”. Ha insegnato Antropologia economica presso l’Università di Torino e ha svolto altri insegnamenti. Suo principale campo d’interesse sono gli insediamenti informali, in Italia come in Africa. Scrive per Il manifesto, Nigrizia e altre testate. Tra i suoi libri: Eccessi di città. Baraccopoli, campi profughi e periferie psichedeliche (Paoline, 2007), Baracche e burattini? La città-slum di Korogocho in Kenya (L’Harmattan Italia, 2003).