Da una ventina di giorni il presidente del Camerun è di nuovo in carica. Per la settima volta. Tutto come prima, dunque? Forse non proprio. E non unicamente a motivo della spinosa questione dell’area anglofona.
Può la sconfitta elettorale del presidente di un Paese africano far tremare l’Europa? Esiste un effetto farfalla in politica? Qualche sconquasso c’è stato quando, meno di 24 ore dopo le elezioni del 7 ottobre, il candidato del Movimento per la rinascita del Camerun Maurice Kamto si è proclamato vincitore («Ho ricevuto un chiaro mandato dal popolo camerunese, che intendo difendere fino alla fine») senza tuttavia portare i dati necessari a suffragare la sua affermazione. «Questo è un evento storico che ha reso possibile un’alternanza democratica», ha insistito, chiedendo al presidente uscente Paul Biya, al potere da 36 anni, di attuare una «transizione pacifica».
Subito la notizia si è trasformata in titoli come “Camerun, vince il candidato dell’opposizione”, facendo saltare sulla sedia le cancellerie di mezzo mondo. Poi si è passati a titoli più appropriati, tipo “Kamto rivendica la vittoria”.
Fake governativa
Dura la reazione del governo. Il suo portavoce Issa Tchiroma Bakary ha ricordato all’ex ministro della Giustizia Kamto che «il Consiglio costituzionale è l’unica autorità che può dare i risultati ufficiali delle elezioni presidenziali. Chiunque voglia destabilizzare il Camerun dovrà fare i conti con la forza della legge». Dopo due settimane, i risultati sono stati proclamati dal presidente del Consiglio costituzionale (interamente di nomina presidenziale), che ha certificato la vittoria di Biya con il 71,3% dei voti contro il 14,2% di Kamto. Il presidente ha vinto ha vinto nettamente ovunque: 77,69 % nel Sud-ovest, 92.91%, nella regione del Sud, 48,19% nell’Ovest, 81,74% nel Nord-ovest, 89,21% nel Nord, 90,43% nell’Est, 71,10% nel Centro, 80,88% nell’Adamawa. Ha vinto persino tra i residenti all’estero (51,97% in Europa, 83,85% in America). Unica eccezione, il Litorale, dove è stato di poco superato da Kamto (rispettivamente 35% contro 38%).
E questo è stato solo il primo colpo di scena. Il secondo fatto singolare è la presenza, a un programma televisivo, di osservatori di Transparency International. Niente di speciale, se non si fosse trattato di falsi osservatori, come la rappresentante dell’agenzia, Patricia Moreira, ha prontamente segnalato: «Non abbiamo inviato una missione internazionale di osservatori elettorali in Camerun». Il dubbio è che si sia trattato di una fake governativa, dal momento che la falsa esponente di Trasparency, Nurit Greenger, ha dichiarato alla tivù pubblica che «le elezioni sono state trasparenti come acqua di sorgente».
«Libere e trasparenti»
Terzo aspetto, il boicottaggio elettorale invocato dai movimenti separatisti nelle regioni anglofone (dove vive il 20% della popolazione) è risultato significativo (ha votato il 16%). Elecam, la Commissione elettorale, ha riconosciuto la bassa affluenza, come ha spiegato il suo responsabile: «Quando gli elettori sono spaventati, minacciati, è normale che non si vogliano esporre e rischiare la vita». Tuttavia la partecipazione generale è risultata discreta, superando in media il 53% degli aventi diritto.
Quarto. Uno dei candidati, Cabral Libii del Partito Univers (cui si sono accodati altri candidati con differenti ricorsi, 18 in totale) – noto come il “Macron camerunese” –, ha denunciato irregolarità nelle operazioni di scrutinio annunciando azioni legali. La Corte costituzionale ha bocciato tutte le istanze dichiarando le elezioni «libere, trasparenti e regolari».
La Chiesa dice no
La situazione di crisi nelle regioni anglofone continua da due anni, con tre morti anche nei giorni delle elezioni e il rapimento del sindaco di Kumbo, un capoluogo di provincia. Secondo gli Amba boys, uno dei gruppi armati dell’Ambazonia, Njong Donatus «è stato arrestato dai nostri soldati» (e liberato ventiquattr’ore dopo). In questa miscela non sono mancati canti, balli, e prime pagine dei giornali dedicate ai religiosi che pregano per la vittoria del presidente. Per gli osservatori dell’Unione Africana le elezioni sono state «generalmente pacifiche», aggiungendo però che «molti partiti non avevano propri rappresentanti di lista nei seggi». Da segnalare le proteste di camerunesi espatriati in molte capitali occidentali e la reazione dei vescovi cattolici. «Questi risultati non mi sembrano corretti, non sono affatto corretti», ha commentato mons. Samuel Kleda, presidente della Conferenza episcopale.
Paul Biya resterà in carica fino al 2025, quando compirà 43 anni di presidenza e 92 anni di età. Ha vinto l’apparato. In primis perché in condizioni di insicurezza la gente cerca la protezione: il cambiamento non si nutre di incertezze ma di sogni. Secondo, perché la percentuale di dipendenti pubblici è tra le più alte del continente. Terzo: la guerra nell’area anglofona ha ingenerato paura nel resto del Paese e imposto la scelta più semplice, ossia la risposta facile a problemi difficili.
E tuttavia, davanti ai problemi della riforma costituzionale, della crisi economica, di una disoccupazione giovanile sopra il 50%, della crisi delle regioni anglofone a rischio di guerra civile, degli attacchi di Boko Haram – le principali questioni che il presidente deve affrontare –, c’è un chiaro segnale di crescita di consapevolezza e dinamicità della società civile. Appare questo il vero risultato di queste elezioni, con il quale il governo dovrà sempre di più fare i conti. Good luck, Cameroon.
La crisi “anglofona“
Il 1° ottobre 2017 è stata proclamata unilateralmente l’indipendenza dell’Ambazonia, territorio occidentale confinante con la Nigeria.
I suoi abitanti – 4 milioni, anglofoni, a fronte di 20 milioni di francofoni – si sono storicamente sentiti marginali, finché nell’ottobre 2016 è emersa una vera “crisi anglofona”.
Il bilancio umano della crisi è, finora, di oltre 150 morti e 180.000 profughi, senza parlare dei sequestri, come quello di 79 ragazzi di una scuola presbiteriana, rapiti presso Bamenda, capitale del territorio anglofono, e rilasciati dopo tre giorni, o quello – avvenuto sabato 24 – di tre religiosi clarettiani camerunesi, dei quali non si ha ancora notizia. Il 21 novembre era stato ucciso un missionario keniano.
L’International Crisis Group punta il dito, per bocca di un analista, sulla cattiva governance di Biya, che non ha fatto che acuire le tensioni frutto dell’eredità coloniale. «Ogni elezione – rileva Hans de Marie Heungoup – appare come una scommessa vinta in anticipo».
Fabrizio Floris, una laurea in Economia e un dottorato di ricerca in Sociologia dei fenomeni territoriali e internazionali, è membro della cooperativa “Labins, laboratorio di innovazione sociale”. Ha insegnato Antropologia economica presso l’Università di Torino e ha svolto altri insegnamenti. Suo principale campo d’interesse sono gli insediamenti informali, in Italia come in Africa. Scrive per Il manifesto, Nigrizia e altre testate. Tra i suoi libri: Periferie esistenziali (Robin, 2018), Eccessi di città. Baraccopoli, campi profughi e periferie psichedeliche (Paoline, 2007), Baracche e burattini? La città-slum di Korogocho in Kenya (L’Harmattan Italia, 2003).