«Gli europei si preoccupano per noi, mentre in questo momento siamo noi a preoccuparci per loro» – «Molti africani hanno capito che l’Eldorado europeo non esiste» – «L’Africa “sprofonda” sotto il suo debito? La realtà non è questa»
Lei è a Dakar dall’inizio della pandemia. Qual è la situazione?
Nell’insieme le misure di sicurezza vengono rispettate. In strada gran parte della gente porta una mascherina. Anche nei trasporti pubblici si va in questa direzione. Purtroppo nei luoghi pubblici che non sono stati chiusi, come alcuni mercati, piccoli ristoranti o sale da tè, si fa fatica a rispettare il distanziamento sociale. Nei supermercati, malgrado la segnaletica, alcuni trovano il modo di non rispettare le norme. C’è veramente del lavoro da fare perché le persone accettino di mettere spazio tra i corpi. Perché la prossimità è culturale.
L’Africa resta il continente meno toccato in numero di morti e di casi di Covid-19. Tuttavia, le previsioni delle istanze internazionali sono allarmiste…
Questo mostra la persistenza dell’afropessimismo. Siamo a poco più di 200mila morti da coronavirus nel mondo. L’Africa ne piange tra 935, secondo l’Oms, e 1.598 secondo il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie dell’Unione Africana [lo scorso 30 aprile – NdR]. Dunque, siamo molto indietro. È interessante paragonare il Senegal agli Usa, due Paesi che hanno conosciuto il primo caso più o meno nello stesso momento. La differenza di propagazione del virus e di risposta politica è forte.
Noi abbiamo agito subito, mentre negli Usa hanno tergiversato. L’Europa ha visto la crisi arrivare dall’Asia senza prepararsi ad affrontarla, tranne i Paesi del Nord, la Germania e il Portogallo. Ma le rappresentazioni negative sull’Africa sono così radicate che non ci si preoccupa nemmeno più di guardare la realtà. E quando la realtà contraddice le rappresentazioni le si sposta nel futuro. Anche se il continente se la cava piuttosto bene, occorre predire una catastrofe. Si fatica ad ammettere che l’Africa di fronte al Covid-19 sta lavorando bene. La narrazione più recente afferma che forse in Africa non avremo una catastrofe, ma che alla fine moriremo di fame a causa della crisi economica. Ritorna sempre la stessa immagine pessimista.
C’è una difficoltà a riconoscere che alcuni Paesi africani possano gestire l’attuale emergenza meglio delle grandi potenze mondiali?
Sì, è un razzismo strutturale che viene ignorato. C’è qualcosa di rassicurante ad avere sempre la sensazione che si è organizzati meglio, più preparati degli altri. Gli europei si preoccupano per noi, mentre in questo momento siamo noi a preoccuparci per loro. Se l’Oms chiama l’Africa a «svegliarsi» mentre altrove si registra un’ecatombe [Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms il 18 marzo – NdR], mi chiedo chi è che dovrebbe svegliarsi! Perché noi non dormiamo, anzi. La migliore risposta che può dare l’Africa è affrontare le proprie sfide, senza perdere tempo a rispondere a chi non vuole vedere l’evidenza.
Lei è firmatario di un testo pubblicato sulla rivista Jeune Afrique, nel quale la crisi sanitaria attuale è descritta come «un’opportunità storica per gli africani di mettere in moto le loro intelligenze […], di riunire le loro risorse endogene, tradizionali, della diaspora, scientifiche, nuove, digitali, la loro creatività…». Si tratta di un pio desiderio o di una realtà concreta?
L’Africa è vasta, quindi mi accontento di parlare del Senegal. Dall’inizio della crisi gli universitari hanno creato dei gruppi di lavoro secondo le diverse competenze. Noi ne abbiamo costituito uno in economia per anticipare l’impatto della crisi sul mondo dei trasporti, del turismo, del commercio, della cultura e del settore informale, molto esposto in questo momento. Abbiamo riflettuto su alcune misure che lo Stato potrebbe prendere per garantire alle persone delle entrate più durature e stabili. Abbiamo incontrato il ministro dell’Economia per offrirgli il nostro aiuto.
Ora stiamo lavorando sul piano di resilienza economica e sociale lanciato dal presidente della Repubblica, Macky Sall, lo scorso 3 aprile. Questa sinergia si è prodotta anche nel settore del diritto, della gestione, della scienza e della medicina. Mi pare un’eccellente dimostrazione dell’impatto che la società civile può avere. Mentre il mondo prediceva il peggio per noi, noi eravamo al lavoro per dare una risposta adeguata alle specificità delle nostre società.
La crisi ha modificato lo sguardo degli africani sull’Occidente?
Molti hanno capito che l’Eldorado europeo non esiste. Diversi senegalesi immigrati in Italia sono rientrati al culmine della crisi. Quelli privi di documenti hanno rischiato, non avendo garanzia di poter ripartire. Hanno considerato che per loro era meglio essere in Senegal. In quanto membri della classe sociale meno tutelata, in Europa essi appartengono ai soggetti più vulnerabili. Certamente le società occidentali hanno le loro forze e il loro progresso. Ma oggi anche i loro limiti sono apparsi in tutta evidenza.
Per un gran numero di Paesi si pone la questione della forte dipendenza dalla Cina. È vero anche in Africa, dove la Cina è il primo partner commerciale?
La Cina è un importante partner commerciale, ma noi non ne siamo dipendenti. Non abbiamo delocalizzato in massa, quindi il problema della ricollocazione non si pone. Nel settore degli economisti il dibattito gira piuttosto attorno ai nuovi orientamenti delle nostre economie. Come ristrutturarle e renderle meno dipendenti dalle materie prime? Come creare sul posto delle industrie che permettano di raggiungere l’autosufficienza alimentare? Dal punto di vista strategico il settore della sanità deve assolutamente essere indipendente. Perché quando non c’è più commercio internazionale, i Paesi chiudono le loro frontiere e gestiscono i loro stock. Su questo aspetto, dopo la crisi, si dovrà lavorare.
Il G20 si è messo d’accordo per sospendere per un anno il debito di 76 Paesi a basso reddito, di cui 40 Paesi africani. Cosa ne pensa?
Ho un parere differenziato. Quando si guardano le cose dal punto di vista del reddito monetario, si dice che questa scelta possa dare una boccata d’ossigeno. C’erano circa 44 miliardi di dollari da rimborsare quest’anno e i Paesi interessati potranno reinvestirli nei fondi per la lotta contro il Covid-19. Ma, dal punto di vista strutturale, l’Africa non è eccessivamente indebitata. Il continente, infatti, ha un rapporto debito/Pil del 60%, del tutto sostenibile. Tra i 15 Paesi più indebitati al mondo si trovano alcune grandi potenze economiche come il Giappone (al primo posto con un debito all’altezza del 238% del suo Pil), gli Usa (105%) o la Francia (100,4%)… In volume complessivo, il debito africano rappresenta circa 500 miliardi di dollari, cioè 0,2% del debito globale. Il problema è che “il debito africano” è diventato una sorta di totem. Un’idea mai messa in discussione e che va da sé.
Infatti, le parole non corrispondono alla realtà. In seguito all’Azione internazionale a favore dei Paesi poveri indebitati (Heavily Indebted Poor Countries Iniatiative, Hipc), della fine degli anni Novanta, e all’Iniziativa di cancellazione del debito multilaterale (Multilateral Debt Relief Initiative, Mdri), del 2005, i Paesi africani si sono ritrovati con dei rapporti debito/Pil molto bassi (il Senegal aveva raggiunto il 20%). Negli anni seguenti gli stessi Paesi si sono in fretta nuovamente indebitati: durante gli ultimi 10 anni i rapporti debito/PIL sono raddoppiati, o in alcuni casi anche triplicati, senza però superare i limiti della sostenibilità. Questa crescita ha però creato nell’immaginario collettivo il mito dell’Africa che “sprofonda” sotto il suo debito. Ma la realtà non è affatto questa.
Come si spiega il perdurare di questo mito?
Bella domanda… Basta fare una ricerca con Google sui rapporti debito/Pil per avere una conferma. Il debito è uno dei miei settori di ricerca e ho scritto diversi articoli scientifici sul tema. Per capire, bisogna cercare nel posto giusto. I nostri Paesi hanno una difficoltà a mobilitare imposizioni fiscali considerevoli e investimenti adeguati. Quando in Europa vi indebitate, lo fate per rendere più produttiva la vostra economia generando risorse che permetteranno poi il rimborso. Economicamente il debito non è un problema se rimane sotto controllo, cioè se viene investito bene.
Purtroppo alcuni stati africani approfittano della crisi per giocare su ciò che io chiamo “la politica della compassione”, chiedendo l’annullamento del loro debito. Ma l’Africa non dovrebbe tendere la mano. Occorre cambiare prospettiva. Assumiamo i nostri debiti, paghiamoli, gestiamoli come si deve e smettiamola di elemosinare un annullamento ogni 20 anni.
Qual è la lezione principale da trarre dalla crisi attuale?
Noi abitiamo lo stesso mondo e condividiamo un destino comune. Questa crisi è quella dell’Antropocene. Sappiamo che è conseguenza dei nostri stili di vita, che viene da lì, dalla devastazione della biodiversità e dalla riduzione dell’habitat delle specie non umane. Nessuno di noi sarà risparmiato da una crisi climatica di grandi dimensioni. La pandemia sta mostrando la necessità radicale di cambiare il nostro rapporto con l’ecologia, il consumismo, gli eccessi economici e industriali. D’altronde, dopo l’arresto di questa folle corsa, le città respirano meglio e certi animali riappaiono.
A livello sociale la crisi ha rivelato in modo eclatante le fratture sociali. Ma non dobbiamo essere idealisti. Per alcuni c’è la tentazione di riprendere con decisione la stessa vita. Di recuperare il tempo perduto, i punti di crescita, di tenere in piedi un determinato sistema sociale ed economico… Se un desiderio di cambiamento è realmente presente, bisognerà che si esprima in modo concreto, attraverso l’azione sociale e con la forza collettiva.
Felwine Sarr è preside della facoltà di Economia dell’Università Gaston Berger di Saint-Louis (Senegal) e direttore dell’Unità di Formazione e di Ricerca del Crac (Civiltà, Religioni e Arti e Comunicazione) presso lo stesso ateneo. È anche scrittore, editore, musicista. Con Achille Mbembe organizza gli “Ateliers de la pensée” di Dakar. È autore di Afrotopia. L’utopia africana (Edizioni dell’Asino, 2018). Il presidente Macron gli ha affidato (congiuntamente a Bénédicte Savoy) lo studio di fattibilità sulla restituzione dei beni culturali africani portati in Francia in epoca coloniale.
L’intervista è stata raccolta da Oumy Diallo per TV 5 Monde e resa disponibile in italiano da SettimanaNews