Fortezza Europa. Breve storia delle politiche migratorie continentali (Helicon) è l’ultimo libro di Sergio Bontempelli, attivista e studioso del fenomeno migratorio nonché collaboratore di Corriere delle Migrazioni e Left.
Il volume affronta la storia delle politiche migratorie in Europa, dal dopoguerra ai giorni nostri. Si tratta di un lavoro di ricerca che offre diversi spunti di riflessione e, come scrive l’autore nelle conclusioni: «Una ricerca storica si rivolge al passato anche per capire il presente e immaginare un futuro possibile».
Il libro si apre con due storie di vita, un confronto tra vecchie e nuove migrazioni. Quanto un’operazione del genere può agevolare il “racconto” del fenomeno migratorio?
«Il confronto tra le storie rappresenta, diciamo così, un escamotage narrativo. Da un lato quella di Urbano Ciacci, emigrante italiano ed ex minatore, trasferitosi in Belgio alla fine degli anni Quaranta, per lavorare nella (tristemente nota) miniera di Marcinelle; dall’altro la vicenda di Irina, una domestica moldava che arriva in Italia nel 2005, per lavorare nella casa di un anziano. Raccontare queste storie è stato utile per mostrare come siano cambiate le politiche migratorie in Europa. Nell’immediato dopoguerra, gli emigranti (italiani e non) erano esplicitamente richiesti dai Paesi di destinazione, perché rappresentavano una manodopera indispensabile per le fabbriche. I Paesi europei più industrializzati incoraggiarono il loro arrivo, sollecitandoli ad emigrare: Urbano Ciacci racconta di aver visto sui muri della sua città un manifesto, stampato dagli imprenditori minerari del Belgio, che invitava gli italiani a partire, promettendo buoni salari e viaggi gratuiti fino alle località di destinazione. Per Irina le cose vanno diversamente: negli anni più vicini a noi, l’immigrazione è stata fortemente ostacolata dalle autorità, e i migranti sono arrivati spesso in modo irregolare, o comunque eludendo controlli e divieti».
Gli emigranti italiani però non ebbero una buona accoglienza in Belgio, così come negli altri Paesi di destinazione.
«Oggi siamo abituati a collocare le politiche migratorie nelle categorie un po’ riduttive dell’accoglienza e del rifiuto. Qui siamo di fronte a vicende molto più complesse. Urbano non venne affatto “accolto” dal Belgio: i minatori italiani reclutati nelle miniere della Vallonia subirono vessazioni di ogni tipo, e furono oggetto di forti ostilità, non troppo diverse da quelle che oggi le burocrazie del nostro Paese (e purtroppo anche molti cittadini italiani) manifestano nei confronti dei migranti. Allora i migranti eravamo noi, e anche noi siamo stati oggetto di razzismo e di disprezzo.
Gli italiani, insomma, non furono “accolti”: semplicemente, c’era bisogno di loro, e le politiche migratorie furono pensate per incoraggiare il loro arrivo».
Le politiche migratorie dei Paesi europei hanno avuto, e hanno, tanti punti in comune. Il principale sembra essere la volontà di chiudere le frontiere. A cosa è dovuto questo accanimento?
«Questo è in effetti un punto decisivo. Nel libro, cerco di spiegare che le politiche restrittive – chiudere le frontiere, vietare o limitare i nuovi ingressi, impedire la regolarizzazione di chi non ha il permesso di soggiorno, e così via – sono state adottate da tutti i Paesi europei sin dagli anni Settanta, dunque ben prima che esistesse l’Unione Europea come la conosciamo oggi: ben prima, cioè, che esistessero direttive, regolamenti e norme valide per tutti i Paesi membri della Ue.
Viene dunque naturale chiedersi perché vi sia stata questa volontà così diffusa, pervicace e persistente di chiudere le frontiere. Ed è una domanda a cui è difficile dare risposte semplici, univoche. Sicuramente un attore che ha contribuito moltissimo a questa straordinaria “convergenza” delle politiche migratorie è stato quella che potremmo chiamare la “burocrazia dell’immigrazione”, cioè l’insieme degli apparati amministrativi e di polizia, chiamati a gestire le presenze degli stranieri. Noi tendiamo a pensare che le politiche migratorie siano fatte dai partiti, dai governi o dai parlamenti: in realtà, molto spesso sono gli apparati ministeriali, i funzionari, a orientare le scelte degli attori politici. In Italia, per esempio, parliamo spesso della legge Bossi-Fini o dei decreti Salvini come se fossero questi atti normativi ad aver costruito le politiche migratorie. Se però guardiamo le cose più da vicino, ci accorgiamo che molti cambiamenti sono dovuti a circolari ministeriali, o magari alle prassi dei singoli uffici, delle questure, delle prefetture, e così via. Anche su scala europea accadono cose simili: gli apparati burocratici sono stati decisivi nell’orientare le politiche».
Qui il fenomeno migratorio viene analizzato partendo dalle normative che hanno governato, o cercano di governare, i flussi migratori. Che quadro ne emerge?
«L’elemento forse più curioso è il fallimento delle politiche migratorie restrittive. I muri e le frontiere, semplicemente, non funzionano, e non hanno funzionato quasi mai. Nel libro faccio alcuni esempi. Negli anni Sessanta, il Regno Unito cercò di limitare i flussi migratori provenienti dalle ex colonie caraibiche, indiane e africane: eppure, gli immigrati caraibici, indiani e africani continuarono ad arrivare, mentre gli irlandesi (che avevano libero accesso al territorio britannico) diminuirono di numero. Negli anni Settanta successe una cosa simile nell’Europa continentale: Francia, Olanda, Belgio e Germania Federale chiusero le frontiere, ma i migranti continuarono ad arrivare. Gli anni Novanta, infine, sono il decennio in cui vi è stata la maggiore rigidità, ma anche l’epoca dei flussi migratori più cospicui.
Le norme restrittive, potremmo dire, non producono un’automatica riduzione dei flussi e, all’inverso, le frontiere aperte non generano necessariamente movimenti migratori “incontrollabili” e “insostenibili”».
(Amalia Chiovaro)