Qualche nota sparsa sul primo impatto di Papa Francesco con l’Africa. La tappa keniana si è caratterizzata per il suo crescendo, dall’accoglienza formale all’aeroporto e alla State House fino all’esplosione di giovinezza allo stadio Kasarani. Bisogna dire che le immagini ufficiali della diretta hanno subìto una regia, soprattutto nelle prime fasi, piuttosto infelice. Ci siamo, per esempio, sorbiti la carica e la detonazione di tutt’e ventuno le salve di cannone, ma non siamo riusciti a veder Bergoglio piantare alberi. E ce n’è voluta prima di capire che Nairobi non è una città popolata da Presidenti, ministri e vescovi, ma anche da gente comune.
Le misure di sicurezza avranno avuto la loro parte di responsabilità, ma c’è da credere che sia stato il Papa il primo a provare nostalgia di quel suo perdersi nel traffico di Rio de Janeiro, due anni fa, a bordo di una piccola Fiat. Anche in seguito ci è parso che il contatto fisico con la gente e i tipici fuori programma francescani non siano stati quelli cui eravamo ormai abituati. Per non parlare di certi discorsi di benvenuto, specie da parte di ecclesiastici, al limite dell’imbarazzante, come quello del responsabile della Commissione episcopale per il clero e i religiosi, infarcito di citazioni di documenti canonici (numeri di pagine compresi), o il ringraziamento del cardinale di Nairobi dopo la messa – ringraziamento, a dire il vero, al capo dello Stato.
L’anima popolare africana e l’umanità di un Papa avvezzo a calpestare il fango delle villas miseria della sua Buenos Aires sono comunque riuscite a bypassare i cordoni di sicurezza e la barriera di almeno due lingue tra l’uno e gli altri, e a entrare in sintonia. Senza ripercorrere tutti i momenti e i discorsi, in certa misura prevedibili, anche se non banali – come la riproposizione dell’enciclica «Laudato si’» alla vigilia di COP21, nella sede keniana Onu, dove ha anche manifestato «preoccupazione» a motivo della conferenza ministeriale del Wto che ivi si svolgerà a breve, «circa gli accordi sulla proprietà intellettuale e l’accesso ai farmaci e all’assistenza sanitaria di base» –, possiamo memorizzare almeno tre momenti.
Il primo è stato il netto rifiuto della violenza di matrice religiosa: «Il Dio che noi cerchiamo di servire è un Dio di pace. Il suo santo Nome non deve mai essere usato per giustificare l’odio e la violenza». Ed è significativo che l’incontro con gli esponenti dei leader delle comunità religiose, durante il quale ha pronunciato queste parole, sia stato il primo vero atto pastorale della sua visita.
Forti, poi, e concrete, le parole pronunciate nella chiesa della parrocchia gesuita dello slum di Kangemi. Lì lui si è sentito – l’ha detto e lo si sarebbe capito comunque – «a casa». Ricordando i bisogni essenziali della gente delle bidonville, acqua potabile in primis, ha pregato (che in questi casi vuole poi dire «ha provocato») perché le autorità «prendano insieme a voi la strada dell’inclusione sociale, dell’istruzione, dello sport, dell’azione comunitaria e della tutela delle famiglie». Ed è stato bello, per chi abbia il Concilio Vaticano II in mente, udire che «le vostre gioie e speranze, le vostre angosce e i vostri dolori non mi sono indifferenti». È l’attacco, citato quasi letteralmente, del documento conciliare «Gaudium et spes», quello promulgato esattamente cinquant’anni fa e che sancisce il nuovo sguardo – non più dall’alto al basso – della Chiesa per il mondo. Sentirlo risuonare non più in San Pietro, ma in una vera periferia fa credere che qualcosa stia davvero cambiando.
Un terzo momento – accompagnato questa volta da un semplice, ma efficace, gesto simbolico improvvisato, quello di formare una catena di mani unite – è stato quello nello stadio di Karasani, in cui Papa Francesco ha condannato il tribalismo. «Tribù» è una parola quasi defunta, dal punto di vista degli antropologi di nuova generazione, ma il tribalismo è vivo e vegeto. (Un po’ come il razzismo, in ottima salute anche se le «razze» non esistono). Anche se proprio in Kenya è stata inventata la più elegante negative ethnicity… Ebbene, rispondendo alle domande dei giovani, Francesco lo ha nominato più e più volte, come «un tarlo che corrode la società» (assieme alla corruzione). Non ha dato, né ha preteso di farlo, soluzioni: «C’è una sola risposta. No… non è una risposta. C’è un solo cammino: guardare al Figlio di Dio». Ma è stato vigoroso il suo appello a non sottovalutarlo: «Il tribalismo distrugge una nazione. Il tribalismo vuol dire tenere le mani nascoste dietro di noi e avere una pietra in ogni mano per lanciarla contro l’altro. Il tribalismo solo si vince con l’ascolto con il cuore e con la mano. Con le orecchie: qual è la tua cultura? Perché sei così? Perché la tua tribù ha questa abitudine, questo costume? La tua tribù si sente superiore o inferiore? Con il cuore. Una volta che ho ascoltato con le orecchie la risposta, allora apro il mio cuore e tendo la mano per continuare il dialogo».
In prima fila ad ascoltare, il Presidente Uhuru Kenyatta, prosciolto giusto un anno fa dalla Corte penale internazionale dell’Aia da accuse di violenze politico-tribali. Mungu akubariki Kenya.
Pier Maria Mazzola