Ghana: cronache dai witch camps, i campi delle streghe

di Stefania Ragusa

Quando ha presentato pubblicamente la sua agenda lo scorso gennaio, la ministra ghanese Sarah Adwoa Safo, delegata alle questioni di genere, ha detto che si sarebbe impegnata per rendere più confortevoli i witch camps. Il verbo esatto che ha usato è stato “to rebrand”. Non li avrebbe chiusi, cancellati o rasi al suolo ma “riposizionati come marchio”. I witch camps sono un’esclusiva ghanese: si tratta di villaggi in cui vengono mandate le donne accusate di stregoneria, isolate dalla società e in condizione di non nuocere. In passato erano molto più numerosi. Oggi ne sopravvivono sei, nella zona di Tamale, nel cuore della regione del Nord.

In questi giorni in cui il dibattito mediatico si è concentrato sul tema degli omicidi rituali, in seguito alla vicenda drammatica di due adolescenti che hanno ucciso un bambino per prelevare parti del suo corpo e utilizzarle per un rito di magia nera, anche la questione delle presunte streghe è tornata in auge in Ghana.
Africa ne ha parlato con Antonella Sinopoli, giornalista italiana residente in Ghana, che ha visitato quattro campi dei sei esistenti, raccogliendo le testimonianze di una trentina di donne accusate di stregoneria per un lavoro di inchiesta.

«L’accusa di stregoneria comincia spesso con un sogno», spiega Sinopoli. «Qualcuno sogna che un certo suo problema o una disgrazia che le è capitata sia stata causata da una persona X. Può trattarsi anche di un uomo ma in genere si tratta di donne, anziane e vedove. Quel qualcuno ne parla in giro. La voce acquista spessore e diventa una verità. La comunità allora si riunisce e ordina alla persona di andarsene in un witch camp. Se questa non lo fa rischia il linciaggio. A una donna, che non voleva andarsene, è stato bruciato per esempio il tetto della casa».

Ma la giustizia non interviene?
«Recentemente una novantenne è stata picchiata a morte. È stato aperto un fascicolo per accertare le responsabilità. Ma difficilmente si arriverà a qualcosa. Le istituzioni sono lontanissime. La questione viene gestita dalle comunità e fare altrimenti sarebbe visto come un gesto sovversivo. L’affermazione della ministra designata per le questioni di genere è, in questo senso, molto indicativa. Bisogna tener conto che a credere nella stregoneria non è una minoranza illetterata ma anche la classe dirigente. A un certo livello di comunicazione questa cosa ovviamente non emerge, ma si sa che è così».

La comunità non teme che una donna capace di fare malefici, e quindi potente, possa tornare mettendo in atto qualche magia per difendersi o attaccare la comunità stessa?
«No, per quanto appaia paradossale, la convinzione è che mandandola nel witch camp sia privata dei poteri. Ed è altamente improbabile che la donna lasci il campo, perché non avrebbe dove andare. Nessuno la accoglierebbe».

Chi si occupa di queste donne?
«In alcuni casi ci sono figli o nipoti a prendersene cura. Anche per loro il campo diventa una sorta di prigione. I bambini dei campi non vanno a scuola, sono tagliati fuori dalle normali reti di relazione. Ci sono poi ong e varie organizzazioni che intervengono per aiutare le donne e per fare un po’ di sensibilizzazione presso le comunità. Anche loro stanno molto attente a non andare in conflitto con le credenze e le tradizioni locali. Il messaggio principale che lanciano quando organizzano confronti all’interno delle comunità di provenienza è: non si picchiano le donne anziane. Dobbiamo procedere per gradi, non possiamo fare diversamente, mi ha detto un operatore di una ong. Un altro mi ha spiegato,: mettere in dubbio l’accusa di stregoneria, dire che non si crede a questa cosa, vorrebbe dire mettersi fuori dalla società. Nessuno si sente di farlo».

E le donne accusate di essere streghe cosa fanno? Credono anche loro alle accuse che le riguardano?
«Una mi ha detto: se lo dicono, lo devo accettare. Un’altra mi ha spiegato che era stata un’altra persona che aveva preso le sue sembianze a fare il male. L’idea che qualcuno dotato di poteri possa prendere le sembianze di un animale o di una persona è molto diffusa. La maggior parte di queste donne spiega così l’accusa. Si sente sfortunata, magari, ma non vittima di un’ingiustizia».

(Stefania Ragusa)

Condividi

Altre letture correlate: