di Federico Monica
Poco più di un anno fa le ruspe hanno demolito la grande discarica di materiale elettronico di Agbogbloshie ad Accra, secondo molti uno dei luoghi più inquinati al mondo. L’intervento però non sembra aver risolto gli enormi problemi ambientali dell’area, mentre la vita quotidiana di migliaia di residenti nel vicino slum che sopravvivevano in gran parte grazie al riciclaggio è diventata ancora più difficile e precaria. Un piccolo viaggio nelle viscere di Agbogbloshie, in mezzo a rifiuti, roghi, incertezza e paura ma anche attraverso creatività, grandi sogni e inattesi raggi di luce.
Il muro di cemento grigio sembra sorgere dai cumuli di spazzatura, la sua superficie liscia contrasta con la massa di oggetti e rottami tutto intorno; ogni tanto un sacchetto di plastica si alza spinto dal vento e volteggiando finisce giù in basso, in quello che un tempo doveva essere un fiume ma che oggi è solo una poltiglia nerastra ingombra di rifiuti. Nonostante la grande strada affollata di veicoli e venditrici sia lontana solo qualche decina di metri qui intorno non c’è anima viva, eppure poco più di un anno fa questo era uno dei luoghi più caotici di Accra.
La striscia desolata fra il muro e il fiume chiamato Odaw è quanto rimane della cosiddetta E-waste area di Agbogbloshie, quella che era considerata la discarica di dispositivi elettronici più grande del mondo; un quartiere dall’aspetto infernale in cui migliaia di persone sbarcavano il lunario smembrando montagne di rottami di elettrodomestici e computer provenienti da tutto il pianeta per recuperarne pezzi di ricambio o metalli da rivendere.
La fine di Agbogbloshie
Alle prime luci dell’alba del 1 luglio 2021 alcuni residenti del vicino slum vengono svegliati da grida di allarme: la strada è stranamente affollata a quell’ora, camionette della polizia, camion militari stipati di soldati in tenuta antisommossa e grandi ruspe rompono la tranquillità del mattino.
Per quel giorno era prevista la demolizione dell’onion market, il mercato all’ingrosso delle cipolle adiacente alla discarica di E-waste, ma lo spiegamento di forze fa immediatamente capire a tutti il vero obiettivo del ministero.
La voce si sparge come un lampo, accorre gente da ogni dove per cercare di fermare le ruspe o per mettere in salvo qualcosa. “Nessuno ci ha avvertito, nessuno ci ha dato il tempo di portar via i nostri beni!” ripetono in tanti mentre iniziano a divampare le proteste, prima in maniera sparsa e limitata, poi sempre più ampie, con barricate lungo la strada e qualche lancio di pietre. A quel punto è intervenuto l’esercito picchiando brutalmente chiunque rifiutasse di allontanarsi o disperdendo la folla con lacrimogeni e spari in aria. I colpi di arma da fuoco sono riecheggiati per alcune ore e, anche se le dichiarazioni ufficiali non citano vittime, secondo i residenti sono diverse le morti archiviate come infarto o cause naturali che risalgono a quel giorno.
Al calare della sera del quartiere, esteso su un’area di dodici ettari, non resta altro che un tappeto di lamiere e rottami fumanti in cui si aggirano centinaia di persone alla disperata ricerca di qualcosa da salvare o da rivendere; qualcuno tenta anche di ripartire con le attività, ma proprio per impedire una rioccupazione ecco che nei mesi successivi spunta l’alto muro in cemento parallelo al fiume. I roghi e le attività informali di riciclaggio continuano sull’altra riva o più in fondo, verso la laguna.
Problema risolto?
La questione è controversa; in molti sostengono che questo fosse uno dei luoghi più inquinati del pianeta, e osservando le montagne di circuiti elettronici che tutt’ora si mischiano al fango delle pozzanghere o le nuvole di fumo nero all’orizzonte non è difficile crederlo; demolire questo centro sarebbe quindi un passaggio obbligato per poter pensare a una bonifica dei luoghi e al loro ripristino ambientale.
Secondo altri però la questione dei rifiuti elettronici ad Accra non è cambiata radicalmente: al porto di Tema o a Takoradi sono ancora moltissimi i containers stipati di dispositivi di seconda mano che ogni giorno vengono portati in centri informali sparsi per la città. Quello che accadeva ad Agbogbloshie avviene tutt’ora estremamente più in piccolo in decine di luoghi di Accra, il problema è stato ridotto, sicuramente reso meno visibile, ma non certo risolto. Dall’altra parte si è creato un immenso problema sociale. La discarica di e-waste costituiva infatti l’attività economica principale per la maggioranza dei residenti nello slum che quotidianamente attraversavano il ponte sul fiume Odaw per sbarcare il lunario con il recupero dei rifiuti. Più di un anno dopo dietro il muro di cemento non c’è traccia di nuove costruzioni e gli annunci di nuove opportunità di lavoro per gli ex “scrap dealers” sono rimasti lettera morta o si sono rivelati irrealistici, come la proposta di trasferirsi in un’area di 4 ettari ad Adjeh Kojo, un villaggio a una trentina di km dalla città.
Giusto dare priorità alle emergenze ambientali ma intervenire radicalmente e demolire tutto senza individuare alternative plausibili e soprattutto senza averle già avviate significa condannare alla fame o all’illegalità decine di migliaia di persone.
Nel nostro sentire comune i termini informale e illegale ci appaiono quasi come sinonimi, eppure la differenza è netta: le attività informali sono semplicemente non regolamentate; hanno indubbiamente dei limiti, soprattutto per quanto riguarda la sicurezza o la tutela dei lavoratori ma in contesti estremi sono una risposta efficace alle esigenze di sopravvivenza di molte persone. Una risposta che spesso è paradossalmente l’unica alternativa proprio all’economia criminale, e Agbo non fa la differenza.
“Dopo lo sgombero è molto difficile vivere qui” racconta Prince, seduto davanti alla sua bottega di pneumatici usati lungo la strada principale che porta verso il mercato. Non parla soltanto di economia ma di sicurezza: “Tutti i giorni sentiamo di rapine, furti, estorsioni, addirittura omicidi. Il quartiere non è più sicuro, i giovani non sanno come sopravvivere e si lanciano nella criminalità.”
Futuro incerto
Problemi complessi che non prevedono soluzioni semplici, e qualcuno inizia a temere che la stessa sorte toccata all’area dei laboratori e delle discariche arriverà presto anche di qui dal fiume, lasciando decine di migliaia di persone senza un riparo, costrette a spostarsi altrove, ai margini della città. È già successo pochi mesi fa per le case più vicine alla laguna e anche se sembra difficile che il governo si imbarchi in una demolizione completa con ricadute enormi dal punto di vista sociale la paura e l’insicurezza restano, acuendo i problemi già complessi del quartiere.
Lo slum, insieme ad altri insediamenti della capitale, è inserito nel progetto GARID, un faraonico complesso di interventi per il rafforzamento della resilienza e della sicurezza idraulica nell’area metropolitana di Accra supportato da varie agenzie internazionali fra cui la World Bank. Al momento sarebbe in corso la fase di analisi e progettazione che dovrebbe portare a una sistemazione dei sistemi di scolo e messa in sicurezza idraulica e l’impatto che avrà in termini di demolizioni e trasferimento forzato dei residenti non è ancora quantificabile.
Il programma GARID prevede che siano messi in atto processi partecipativi che coinvolgano i residenti proprio per ridurre al minimo gli impatti sulla comunità; il timore però è che, come spesso accade in interventi basati unicamente alla realizzazione di infrastrutture, la partecipazione sia semplicemente di facciata, senza che gli abitanti del quartiere abbiano reale potere decisionale.
Resta poi il dubbio su quello che sarà realizzato al posto dell’area di E-waste e dell’Onion market. L’uomo forte che sta dietro l’intera operazione, il ministro per la zona metropolitana di Accra Henry Quartey, ha stazza imponente e modi decisi. Quando parla usa toni più adatti per un teatro di guerra che per una città: “Abbiamo ripreso il controllo di Agbobloshie”, “finita la fase uno passeremo a ripulire gli altri insediamenti” twittava durante le demolizioni. Proprio Quartey poche settimane fa ha annunciato che la nuova Agbo sarà molto diversa dalla precedente, “qualcosa di cui tutti i residenti di Accra saranno orgogliosi. Il timore di molti è che oltre all’ospedale previsto dai piani di sviluppo l’area di quasi 20 ettari venga riempita realizzando edifici residenziali di alto livello, centri direzionali o mall.
Per i residenti di Agbloboshie sarebbe l’inizio della fine: l’avvio di un processo inesorabile di gentrificazione che in breve tempo porterebbe alla demolizione del quartiere, non per riqualificarne le abitazioni ma al contrario per mera speculazione edilizia, costringendo decine di migliaia di persone senza più nulla a spostarsi e ricominciare una vita altrove.
Geografie indecifrabili e luoghi del quotidiano
Il quartiere è poco a nord della storica area di James Town e sorge ai margini dell’area paludosa della Korle lagoon, un bacino che raccoglie oltre il 70% degli scoli di Accra. I confini sono ben definiti da elementi urbani o naturali: a nord est la lunga Hansen road circondata da un lato da botteghe e negozi, dall’altro da grandi fabbriche; a nord e a ovest l’Odaw channel e il più grande Odaw river, corsi d’acqua perennemente ingolfati di plastica che proprio al limite sud dell’insediamento si buttano nella laguna.
Agli occhi di un visitatore quest’area della città non sembra altro che un indistinto ammasso di lamiere e vicoli inestricabili, eppure esistono confini ben precisi che suddividono lo slum in quartieri diversi: Agbogbloshie, Old Fadama, Sodoma and Gomorrah, Onion market, Konkomba, Kilimanjaro non sono sinonimi di un unico grande insediamento ma disegnano zone ben riconoscibili a chi vive qui, ognuna con le sue reti di potere, i suoi problemi, le sue attività e le sue comunità.
Geografie indecifrabili ed effimere, che possono mutare rapidamente o sparire del tutto: alcuni di questi nomi appartengono già alla storia, come quelli che si trovavano a nord dell’Odaw river, di cui non resta più nulla se non un tappeto compatto di rifiuti spianati dai bulldozer.
Difficilmente le auto si spingono in queste strade strette, fangose e perennemente affollate, in compenso le moto sfrecciano ovunque, utilizzate anche come mezzo di trasporto per carichi voluminosi. Il loro rombo fa a gara con il gracchiare degli altoparlanti che chiamano i fedeli alla preghiera da un tozzo minareto in cemento: buona parte dei residenti di qui è originaria delle regioni settentrionali del paese a maggioranza musulmana.
Ci infiliamo in un vicolo largo pochi centimetri, una ripida scala porta al piano superiore di una casa, realizzato con pannelli di legno e assi di recupero verniciate di fresco. Lo spazio è troppo stretto per tutti e c’è chi ha iniziato a costruire in altezza; dai terrazzini di queste piccole torrette lo sguardo si perde su un tappeto sterminato di lamiere arrugginite, grovigli di cavi elettrici e antenne paraboliche puntate verso il cielo.
Jesus is my Lord è scritto all’ingresso di un piccolo spiazzo che si apre fra le case; al centro un sarto cuce con la sua macchina a pedale mentre la moglie e le figlie lavano i panni in grandi tinozze stendendoli poi su lunghi fili che rendono il cortile un labirinto inestricabile. I panni stesi, quando non piove, sono un elemento urbano che caratterizza Agbogbloshie: come quinte effimere dividono e compartimentano gli spazi, restituiscono angoli di privacy, regalano colore e vitalità a vicoli e cortili altrimenti spenti.
In un antro buio illuminato a malapena da una luce verde a led un murales bruttissimo ma inequivocabile lascia pochi dubbi sulle attività che si svolgono dietro la porta in lamiera semichiusa. La prostituzione è, insieme all’abuso di alcool e droghe, una delle piaghe del quartiere e uno dei fattori di rischio principali per bambine e ragazze che spesso si trovano senza alternative valide per sopravvivere.
Poco oltre tre ragazzine armate di lunghi pali preparano il fufu colpendo a turno la poltiglia biancastra di plantain e manioca contenuta in un mortaio di legno. Ridono fra loro senza perdere mai il ritmo, replicando un gesto antichissimo tipico della vita rurale in questo angolo dimenticato di città in cui la natura sembra essere irrimediabilmente esclusa.
Affitti alle stelle
Fatima ci osserva sulla porta incorniciata da una tendina di plastica col compito di tenere lontane mosche e zanzare; l’interno è buio ma si intravede il sorriso di due bambini in una fotografia incorniciata appesa al muro, uno sprazzo di normalità quasi commovente. “Vivo qui da un mese, ma non so quanto riuscirò ad andare avanti” ci racconta.
Suo marito è stato ucciso durante lo sgombero della discarica: “aveva là la sua bottega, ogni tanto si fermava anche a dormire per paura dei ladri, come quella sera di fine giugno.” Nessuno sa con precisione cosa sia successo; testimoni raccontano di brutali pestaggi a chi opponeva resistenza, mentre tutti ricordano l’odore dei lacrimogeni e il rumore degli spari; secondo le autorità il marito di Fatima sarebbe morto di infarto mentre veniva scortato via dal quartiere, lei scuote la testa in un misto di incredulità e rassegnazione. “Quella bottega permetteva di mantenerci, ora non sappiamo più come fare, ho lasciato la casa e ho affittato questa stanza, ma siamo in tantissimi ad aver perso tutto e a dover cercare sistemazioni alternative e così i prezzi che erano già alti sono schizzati alle stelle. Sai quanto pago? 50 cedis a settimana, per una stanza! È folle!”
50 cedis corrispondono a poco più di 5 euro, una fortuna per chi deve fare giornata arrabattandosi con lavoretti informali e magari mantenere dei bambini.
Una piccola folla occupa la strada davanti a una piccola tettoia di cemento sormontata da immense cisterne nere, è qui che si può comprare l’acqua potabile a 2 cedis a gallone, quando arriva, diversamente è necessario arrangiarsi, spostarsi in altri quartieri o ridurre al minimo indispensabile i consumi. Appena di fronte un grande edificio verniciato di fresco ospita le docce, fogli fotocopiati incollati alle pareti espongono un listino prezzi che parte da mezzo cedi e aumenta a seconda che servano sapone o salviette pulite.
In questi quartieri di frontiera tutto ha un costo, tutto si paga. Compresi i bagni, un lusso che quasi nessuno si può permettere in casa: mancano non solo lo spazio fisico ma anche le infrastrutture come fognature, fosse settiche o acqua corrente, ed è così che molti sono costretti a percorrere centinaia di metri per raggiungere i wc pubblici più vicini.
Nelle viscere del quartiere
Procedendo verso il fiume Odaw il fango si fa via via più scuro, fino a diventare una melma nera costellata di fili di rame luccicanti o di custodie di plastica di telefoni cellulari. Osservando per terra si riconoscono forme familiari di modelli che appartengono al passato: i vari Nokia, Blackberry, Motorola che hanno segnato la storia della telefonia mobile sono finiti qui, smembrati in mille pezzi per ricavarne qualcosa da recuperare e abbandonati poi ad accumularsi sul fondo dei fiumi o nelle pozzanghere.
In questa parte dell’insediamento, lontanissimo dalla strada e da qualsiasi forma di controllo del territorio da parte delle autorità, il riciclaggio dell’E-waste prosegue indisturbato. Non certo ai livelli precedenti ma le cataste di dispositivi smembrati e le colonne di fumo lungo le rive del fiume sembrano ricreare un girone infernale post-industriale in cui decine di persone si aggirano come dannati.
Mentre lungo la strada principale sono allineate enormi bilance industriali per pesare gli stock di componenti e dispositivi da smantellare, all’interno delle baracche degli intermediari si trovano bilancini di precisione: da qui i metalli estratti dal rogo dei circuiti stampati, rame soprattutto, ma anche alluminio e tracce di argento e oro, riprendono il loro cammino. Un percorso a ritroso che spesso li riporterà in India, Cina o Europa per essere raffinati e riciclati mentre ad Agbobloshie restano gli scarti inutilizzabili e l’enorme inquinamento che producono.
Come in tutti i settori produttivi anche qui le attività sono differenti e altamente specializzate: ci sono infatti i cosiddetti Pickers, che hanno il compito di raccogliere o trasportare dispositivi e rifiuti, i dismantlers che recuperano parti ancora utilizzabili e infine, nell’ultimo anello di una catena che raggiunge i bassifondi del degrado, i burners, coloro cioè che con solo uno straccio legato su naso e bocca, bruciano cavi, schede o dispositivi per ricavarne metalli da rivendere. Un lavoro deteriorante, disumano, letale.
Ecco il backstage della nostra società: il lato più oscuro e ben nascosto della folle corsa alla tecnologia di consumo ha lo sguardo duro e spento di questi uomini perennemente avvolti dal fumo nero di gomma e plastica bruciata che chiude la gola anche a decine di metri di distanza.
Luci nel buio
Una bambina sorridente mostra con orgoglio un cartellone con una grande scritta: “SLUM KIDS LIVES MATTER”, altri sorreggono bene in vista fogli colorati che ricordano come l’educazione di qualità o un ambiente sicuro siano un diritto fondamentale.
Sono i ragazzi supportati dall’organizzazione locale Asase Africa foundation, una piccola ONG che aiuta le famiglie più in difficoltà e sostiene i costi di iscrizione a scuola o eventuali spese sanitarie di numerosi bambini dello slum.
Wolfgang, l’ideatore e anima dell’associazione è nato nel quartiere, tutti lo conoscono e ad ogni angolo di strada un bambino arriva correndo per abbracciarlo. Sono solo alcuni dei ragazzi che supporta nel percorso scolastico, ma in breve siamo seguiti da una schiera vociante e allegra sempre più nutrita; ad ognuno di loro Wolf dedica una parola, una breve interrogazione, un buffetto scherzoso se la risposta è sbagliata. “Sono nato qui e so cosa significa non avere prospettive.
Agbo è un buco nero da cui sembra impossibile uscire quando ci sei dentro, solo la scuola è un’ancora di salvezza per questi ragazzi.”
Un progetto nato dal basso che però parla anche italiano, grazie all’impegno costante di Isabella Cambiganu che dal 2017 con la sua associazione “Terra di Luce” basata a Savona supporta le attività di Asase con adozioni a distanza e non solo.
Isabella è di casa ad Agbogbloshie e quando parla dei suoi ragazzi le si illuminano gli occhi: “Cerchiamo di restituire bellezza a questo luogo dimenticato e di costruire nuove opportunità di vita per questi bambini, perché possano permettersi di sognare un futuro migliore per loro e per la comunità.”
E a coltivarli i sogni rifioriscono e si fanno grandi: Blessing vorrebbe diventare dottoressa per curare i bambini in difficoltà, Mina studierà legge, è la prima della classe e non perde una lezione, ma finita la scuola deve correre ad aiutare la mamma a vendere ortaggi lungo la strada.
Quello che ancora manca è una struttura: uno spazio pulito e sicuro in cui far studiare o passare il tempo ai bambini; è il prossimo ambizioso progetto di Terra di Luce e di Asase, nonostante l’insicurezza dopo lo sgombero e le minacce del governo rendano difficile fare programmi a lungo termine.
È quasi ora di andare; torno sulla strada principale alla ricerca di un taxi che come sempre tarda ad arrivare, così mi incammino a piedi verso il centro circondato da un fiume di persone, auto, camion e carretti. Le venditrici sotto gli ombrelloni allineano con cura enormi tuberi di manioca, cipolle o carote, dietro di loro una fila di negozi coloratissimi e traboccanti di merci coprono lo slum; da qui è impossibile anche solo immaginare cosa succeda dietro quel confine invisibile fra la città “ufficiale” e quella informale.
Il cuore si fa pesante mentre il sole inizia piano a scendere, i miei occhi si arrossano e si fanno lucidi; dev’essere lo smog o il fumo nero. O forse no, forse è solo che non ci si abitua mai: faccio questo mestiere da quindici anni eppure quel miscuglio strano di dolore, ammirazione, rabbia e affetto che si prova ogni volta che si varca quel confine torna sempre a chiudere la gola.
Che ne sarà di Agbo? Risorgerà come l’araba fenice dal suo fumo nero o resterà destinata ai margini di un mondo in cui il consumo forsennato di beni e l’obsolescenza programmata producono inferni quotidiani tenuti accuratamente lontani dai nostri occhi? E che ne sarà delle ragazze e dei ragazzi di Isabella? Dei loro sogni? Vincent diventerà mai un bravissimo designer o dovrà accontentarsi di smantellare rottami da rivendere a due lire per far giornata? E Mina? Ce la farà a diventare un’avvocatessa per difendere i diritti dei bambini o resterà intrappolata nella lotta impossibile per la sopravvivenza quotidiana? Nessuno lo sa; cammino sempre più in fretta e so solo che se potessi avere un desiderio da esprimere, anche uno soltanto, sarebbe per loro.
Foto di apertura: Luca Grillandini