Un missionario dehoniano osserva il Paese a sei mesi dalle presidenziali, allorché i vescovi misero in dubbio il risultato del voto. Poi non hanno più insistito. Può essere una dimostrazione di responsabilità. «Resta, tuttavia, un’esigenza di maggiore chiarezza».
In questo ricco e meraviglioso Paese sembra che niente riesca a decollare. Le elezioni di sei mesi fa hanno sancito una continuità di comportamento della classe politica attuale con quelle del passato: corruzione a tutti i livelli, accordi economici e militari con reali e possibili nemici del Paese, promesse già certe di non essere mantenute…
E la situazione peggiora di giorno in giorno. All’Est, nel Nord e nel Sud-Kivu, il virus ebola continua a mietere vittime, complici le scorribande mortali di gruppi armati e l’impreparazione della gente di fronte agli interventi dei sanitari costretti a isolare le persone colpite dal virus e ad usare mezzi per lo più sconosciuti ai malati.
L’analisi dei vescovi
C’è tuttavia chi, come i vescovi del Paese, riesce a vedere con sufficiente lucidità la situazione, a farne un’analisi assai completa e a proporre piste di “risurrezione”.
Al termine della loro 56ª assemblea, a fine giugno, nel Messaggio al popolo di Dio i vescovi salutano il cambiamento alla testa dello Stato, frutto delle elezioni del 30 dicembre 2018, come un evento positivo che sembra aiutare la gente a sperare in una situazione migliore, e ne parlano come di una vera rottura col passato. Citano, a questo proposito, «l’apertura dello spazio politico e mediatico, il rilascio dei prigionieri politici, e il ritorno nel Paese degli esiliati politici».
Rimarcano, tuttavia, le piaghe endemiche del Paese, sottolineandone la crescita. La corruzione diffusa in ogni ambito, dalla scuola dove si comperano i diplomi, al ritardo dell’organizzazione delle elezioni locali. Il fallimento dell’economia, che arreca fame per gruppi sempre più numerosi di persone, soprattutto di bambini. La giustizia, luogo di combine e di imbrogli di ogni genere. L’arricchimento di pochi e l’impoverimento di masse sempre più grandi… E, ancora, la riapparizione del famoso piano di balcanizzazione del Congo, presente già dalla caduta del presidente Mobutu Sese Seko, e reso attuale proprio dai disordini già citati nell’Est del Paese.
Seguono le raccomandazioni al presidente della Repubblica (instaurare un vero Stato di diritto), al Parlamento (mettersi realmente al servizio del Paese), al futuro governo (impegnarsi sul piano dell’educazione e nella lotta alla corruzione), al popolo congolese (non permettere che il Paese sia ostaggio di una minoranza, e lottare pacificamente per i propri diritti).
È ammirevole l’impegno dei vescovi nel voler infondere speranza al popolo congolese, in un momento così difficile. Tuttavia, resta difficile trovare una linea logica di affermazioni e di comportamenti dal momento delle elezioni ad oggi, a sei mesi dalle elezioni.
Per il bene del Paese
Qualche giorno fa, il presidente Félix Tshisekedi ha rilasciato un’intervista di 24 minuti a France 24 e a Radio France Internationale. Una domanda postagli riguardava il risultato delle elezioni del 30 dicembre 2018. La Cenco (Conférence épiscopale nationale du Congo) aveva affermato di aver distribuito circa 42.000 osservatori nei diversi seggi elettorali del Paese, dopo previa preparazione. A risultati annunciati, la stessa Cenco aveva detto di conoscere il nome del vero eletto, e questo non corrispondeva a quello annunciato dalla Ceni (Commission électorale nationale indépendante). Poi, tutto si è ricomposto con l’accettazione del presidente annunciato dalla Ceni.
Interrogato su questa diversità di giudizio delle elezioni, il presidente Tshisekedi ha risposto che la Cenco non ha mai dimostrato con dati alla mano quello che aveva detto. Il presidente conclude poi che i rapporti con i vescovi del Congo sono buoni.
È ancora di questi giorni l’intervista all’arcivescovo di Kinshasa, Fridolin Ambongo, nella quale afferma che il presidente Tshisekedi non ha margini di manovra e che la Chiesa deve aiutarlo a diventare il vero presidente. Questo, perché i vescovi constatano che il presidente è schiacciato dall’influenza del vecchio governo di Joseph Kabila (cfr. Le Journal Afrique di TV5: “Quale ruolo può giocare la Chiesa cattolica dopo le elezioni?”).
Mi sembra lecito ammettere che manca una presa di posizione chiara e chiedersi perché la Cenco non abbia continuato a sostenere la sua affermazione che il presidente uscito dalle elezioni non è il signor Félix Tshisekedi, ma un altro. Nei mesi scorsi, poco dopo le elezioni, i vescovi delle diocesi del Kasai (provincia natale del presidente) si erano pronunciati riconoscendo Félix Tshisekedi il vero eletto. Questo fa pensare che i vescovi abbiano optato per il bene del Paese, attenti all’evoluzione della situazione, invece di soffiare su ceneri che avrebbero acceso un fuoco troppo grande. E in questo momento in Congo non c’è bisogno di questo genere di fuochi. Resta, tuttavia, un’esigenza di maggiore chiarezza, per evitare che in futuro si accusi ancora la Chiesa di silenzi compiacenti.
Giovanni Pross per SettimanaNews