Gli effetti “africani” della pace nel Golfo

di Stefania Ragusa

Il riavvicinamento diplomatico tra Qatar e Arabia Saudita, segnato dal  41° vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) del 5 gennaio, potrebbe avere profonde ricadute anche nel continente africano. Negli ultimi anni, l’Africa è infatti diventata uno dei principali terreni di scontro nel quale i due Paesi si confrontavano in modo indiretto.

Per comprendere le ragioni di questa rivalità bisogna risalire a una decina di anni fa. Ai tempi delle Primavere arabe nel 2011, il Gcc, guidato dall’Arabia Saudita, era intervenuto in Bahrain contro le proteste che sembravano minacciare la locale monarchia. Questo intervento aveva un valore fortemente simbolico. Riad e Abu Dhabi volevano «stabilità» e non apprezzavano i cambiamenti in atto. Il rovesciamento del governo in Egitto e Libia, così come in Tunisia e la guerra civile in Siria, hanno però cambiato tutti i calcoli regionali. La Fratellanza musulmana, che aveva preso il potere in Egitto e Tunisia e lottava contro il regime di Bashar al-Assad in Siria, era vista come una minaccia proprio alla stabilità politica, oltre a rappresentare una sfida teologica all’islam wahabita saudita. Per questo motivo la Fratellanza è stata bandita in gran parte del Golfo, mentre gruppi come Hamas e Hezbollah hanno trovato meno sostegno nella loro azione sul campo. Tra le monarchie del Golfo, però, il Qatar ha mantenuto una sua posizione autonoma. Non ha messo al bando il Qatar, ha continuato a finanziare il governo di Gaza e ha creato un solido asse politico ed economico con la Turchia e l’Iran.

In Africa, lo scontro tra Arabia Saudita-Emirati Arabi, da una parte, e Qatar-Turchia, dall’altra ha preso diverse forme. In Libia si è trasformata in una guerra per procura. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno sostenuto Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. A loro fianco si sono schierati l’Egitto (il cui presidente al-Sisi sta combattendo una dura battaglia contro la Fratellanza Musulmana), la Russia (con i mercenari del gruppo Wagner) e, anche se in modo defilato, la Francia. Questi Paesi hanno armato l’esercito di Bengasi (anche con droni cinesi) e lo hanno spinto a un’offensiva (fallita) contro Tripoli. La Turchia, sostenuta economicamente dal Qatar, ha invece sostenuto il governo insediato a Tripoli. Ankara non ha solo inviato droni, ma ha mandato proprie truppe a sostegno delle milizie tripoline. Solo così è stato possibile per il governo di Tripoli resistere all’offensiva da Est e arrivare a un cessate-il-fuoco.

La guerra, anche se non guerreggiata, si è combattuta anche nel Corno d’Africa. La Turchia è uno dei primi investitori in Somalia dove ha costruito grandi infrastrutture (ha costruito il porto di Mogadiscio) ma anche una grande base militare. I rapporti tra il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo e quello turco Recep Tayyp Erdogan sono ottimi. Per contrastare la presenza turca, gli Emirati Arabi Uniti hanno investito nel Somaliland, nazione indipendente, ma non riconosciuta a livello internazionale, e in Eritrea (dal 2015 hanno una base militare nel porto di Assab, la loro prima struttura militare all’estero) e in Etiopia (dove hanno 92 progetti di investimento in Etiopia nei settori dell’agricoltura, dell’industria, del settore immobiliare, della sanità e dell’estrazione mineraria).

In Sudan, la Turchia, sfruttando i buoni rapporti con il governo di Omar al-Bashir, ha affittato un’isola nel Mar Rosso per creare una base militare. Il cambio di regime a Khartum ha però portato a un raffreddamento dei rapporti con il blocco legato alla Fratellanza musulmana e un riavvicinamento a quello dell’Arabia Saudita. Non è un caso che siano state avviate trattative per giungere a un’intesa di pace con Israele (che negli ultimi anni si è riavvicinato sia a Riad sia ad Abu Dhabi).

Il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Qatar, secondo molti osservatori, avrà inevitabilmente effetti su questi contesti regionali. E potrebbe avere allo stesso tempo conseguenze nei rapporti tra mondo arabo, Iran e Turchia, ma anche Israele. Teheran appare ai margini e, allo stesso tempo, troppo importante per essere ignorata, anche se gli ultimi sviluppi sembrano spingere verso un suo maggiore isolamento. I prossimi mesi daranno la misura dei cambiamenti in corso.

(Enrico Casale)

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