Gli Usa alla prova dell’Africa

di claudia
Joe Biden

di Mario Giro

Oltre alla guerra in Ucraina e alle tensioni con la Cina, l’amministrazione Biden ha molte questioni di politica internazionale da risolvere. E in Africa si gioca una partita cruciale. In Etiopia e Nigeria è apparsa incerta. Ma il continente è tornato al centro delle attenzioni della Casa Bianca.

In genere si pensa che negli Usa la politica estera non incida sul voto, soprattutto quando si tratta di elezioni di medio termine (in programma per l’8 novembre 2022). Tuttavia le cose sono talmente intrecciate che è difficile separarle. L’interconnessione economica tra Occidente e Cina sta divenendo un punto debole o addirittura un’arma. Per questo Pechino è apparsa titubante nello schierarsi sulla guerra ucraina: il conflitto interrompe i progetti di nuova Via della seta ma al contempo indebolisce la posizione degli Stati Uniti.

Abituato a dibattiti politici concentrati su questioni interne, il pubblico americano sta scoprendo ogni giorno di più le conseguenze della globalizzazione, paradossalmente percepite soprattutto quando il sistema va in crisi o si ferma a causa delle ostilità. Tra gli esperti si discute se sia più rischioso il sistema attuale o quello di una qualche forma di de-globalizzazione favorita dalla pandemia, che accorcia le catene di valore e riaggrega gli Usa e l’Europa. Da lunga data non c’è stato un presidente Usa così esperto di materia internazionale come Joe Biden, che per decenni ha presieduto la commissione Affari esteri del Senato. Eppure la sua amministrazione è in ritardo sotto tanti aspetti: le nomine degli ambasciatori sono lente e su numerosi quadranti disegnare una nuova strategia non si rivela facile. Per esempio, l’audizione sulla politica africana di Molly Phee, la nuova assistant secretary per gli Affari africani, si è rivelata un fuoco di fila bipartisan di critiche e richieste.

I congressisti si sono concentrati innanzitutto sulla guerra in Etiopia. Dal punto di vista parlamentare emerge una volontà di non fare alcuna differenza tra le atrocità commesse dal governo di Addis o dalle Tigray Defense Forces. Alla fine l’amministrazione, spinta sia dai democratici che dai repubblicani, ha dovuto in effetti minacciare sanzioni a entrambi. Malgrado gli sforzi fatti, l’influenza Usa su Addis si è molto ridotta, mentre la campagna americana favorevole al Tigray, che sembrava aver avuto un certo impatto, ha perso forza. L’Etiopia era divenuta un alleato di Washington sia nella lotta antiterroristica che nel conflitto somalo, così come un partner affidabile nel contesto dell’Unione Africana. Ora le cose sono cambiate e la politica Usa nel Corno d’Africa assomiglia sempre di più a quelle del Nord Europa.

Sulle sanzioni c’è stato dibattito: sospendere l’Etiopia da tutti gli aiuti e programmi americani potrebbe avere conseguenze interne, vista la presenza di importanti comunità etiopi-americane in alcune città come Los Angeles o Washington stessa. Anche sulla Nigeria l’audizione è stata complicata, considerando che il Paese era messo sotto osservazione dall’amministrazione Trump per gli attacchi ai cristiani e i rapimenti di ragazze commessi dai Boko Haram e non solo. Critiche sono state espresse contro il segretario di Stato Blinken per aver tolto il gigante africano dalla lista dei Paesi sotto osservazione. Il comitato ha valutato non abbastanza incisiva la politica vaccinale in Africa, con la richiesta di aggiungere 25 miliardi di aiuti. Nonostante tale difficile passaggio, il team messo su da Biden per l’Africa è di prim’ordine. La stessa Molly Phee è una veterana della diplomazia e ha servito anche ad Addis e Khartoum. Manca ancora la nomina del nuovo inviato speciale per il Corno, dopo che Jeffrey Feltman, ex ambasciatore in aree di crisi come il Libano e già sottosegretario delle Nazioni Unite per gli affari politici, ha rassegnato le dimissioni. Dana Banks, direttrice per l’Africa del National Security Council, ha oltre vent’anni di esperienza nel dipartimento di Stato ed è stata in Togo, Tanzania, Sudafrica, ecc. Insomma: niente più personaggi improvvisati e senza esperienza del continente come all’epoca di Trump, che definì i Paesi africani «cessi». Resta da determinare quale sarà la politica americana in Africa: non potrà limitarsi a giocare di rimessa nei confronti di Pechino e ora anche di Mosca.

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