È uno dei Paesi più piccoli d’Africa e più poveri al mondo. Una storia travagliata, costellata di colpi di stato e guerre civili. L’ultima crisi politica è coincisa con l’esplosione della pandemia di coronavirus. Eppure la Guinea-Bissau sa sorprendere e incantare. Rimpianti e tormenti di una nazione fragile che conserva un’ identità ricca di charme
di Anna Pozzi – foto di Bruno Zanzottera
Colonia portoghese fino al 1974, la Guinea-Bissau non ha mai conosciuto pace e stabilità. La sua storia recente è disseminata di colpi di stato, conflitti interni e crisi politiche. Lo hanno definito “stato fallito”, per la fragilità di tutte le sue istituzioni. O “narcostato”, perché i trafficanti di droga lo usano come base d’appoggio lungo le rotte che collegano l’America Latina all’Europa.
Eppure, questo minuscolo Paese di appena due milioni di abitanti, incastonato tra Senegal e Guinea (Conakry), ha una sua unicità nel contesto dell’Africa occidentale, con la sua popolazione cordiale e accogliente, fortemente legata alle culture e tradizioni locali e sempre in lotta per la sopravvivenza. Politici e militari, invece, lottano per il potere, spadroneggiando indisturbati e spesso in conflitto tra loro.
L’ultima crisi
L’ultimo pasticcio istituzionale ha avuto come fulcro le elezioni dello scorso 29 dicembre, precedute da settimane di tensioni e violenze e da un presunto tentativo di colpo di stato. E seguite dalla confusione più totale. Umaro Sissoco Embaló, del Movimento per l’alternanza democratica (Madem-G15), che avrebbe ottenuto il 53,55% delle preferenze, si è frettolosamente autoproclamato presidente. Il suo sfidante, Domingos Simões Pereira del Paigc, (il partito che tenne a battesimo l’indipendenza del Paese), lo ha accusato di frode e ha fatto ricorso alla Cassazione. Dal canto suo, il presidente del Parlamento, Cipriano Cassamá, si è fatto proclamare presidente ad interim dalla maggioranza parlamentare, il 1° marzo, salvo dare le dimissioni l’indomani, in seguito a minacce di morte.
Quindi Embaló ha nominato un primo ministro e un governo, però senza alcuna legittimità, ufficialmente riconosciuti dalla Conferenza economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao), mediatrice nell’ennesima crisi guineana, solo alla fine di aprile. Nel frattempo, il Paese si è ritrovato senza una vera guida e un riconoscimento internazionale ad affrontare anche l’emergenza coronavirus.
Senza terapia intensiva
La pandemia, infatti, si è insinuata anche in questo che è uno dei più piccoli Paesi africani, così come in tutto il continente, provocando grande allarme. La Guinea-Bissau ha un sistema sanitario molto precario e ha affrontato l’arrivo dell’epidemia senza tamponi né medicine, senza un solo posto in terapia intensiva né in isolamento. Come tutti, ha applicato misure draconiane di lockdown che rischiano di avere ripercussioni più gravi dello stesso Covid-19. Le testimonianze in queste settimane sono inquietanti e raccontano di moltissime famiglie che rischiano di morire letteralmente di fame. Con il divieto di spostamento e di assembramento e la chiusura di alcuni mercati, la gente che vive di un’economia quotidiana e incerta ha avuto grandi difficoltà a tirare avanti.
Del resto, già in condizioni “normali” quasi il 70 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Con un Pil pro capite annuo attorno ai 2.000 dollari, il Paese si colloca agli ultimi posti (178°) della classifica dello sviluppo umano dell’Undp. A ciò concorrono altri fattori, come la diffusa malnutrizione, che interessa un bambino su tre, e l’alto tasso di mortalità sia neonatale sia dei minori di cinque anni, spesso per malattie che potrebbero essere curate, come la malaria o le infezioni respiratorie e gastrointestinali. Le donne, inoltre –penalizzate su tutti i fronti, dall’accesso all’istruzione a quello alla sanità –, continuano spesso a partorire nelle loro abitazioni, senza alcuna assistenza né le minime precauzioni igienico-sanitarie. Non per niente il Paese registra uno dei tassi di mortalità materna tra i più alti al mondo: 667 donne su 100.000.
Comunicazioni difficili
In una simile situazione, la pandemia si è avventata sulla Guinea-Bissau come l’ennesima sciagura da affrontare a mani nude. Solo pochi anni fa, nel 2014, il Paese era riuscito a scampare indenne all’epidemia di ebola che aveva invece funestato le vicine Guinea, Sierra Leone e Liberia. Questo perché erano state messe in campo vaste campagne di sensibilizzazione e prevenzione. All’epoca era stato molto efficace l’intervento dei leader religiosi cristiani (22 per cento della popolazione) come musulmani (45 per cento), che da chiese e moschee avevano lanciato l’allarme e informato la popolazione sui rischi e sulle modalità per proteggersi.
L’epidemia di Covid-19, invece, ha imposto anche la chiusura dei luoghi di culto, che dunque non hanno potuto fare da cassa di risonanza per la sensibilizzazione. Ciononostante, sono state realizzate molte attività con tutti i mezzi disponibili.
Un ruolo di primo piano lo hanno avuto le emittenti radiofoniche e in particolare Radio Sol Mansi, la stazione cattolica nazionale che raggiunge tutte le aree del Paese ed è la più ascoltata. Sono anche stati mandati in giro ragazzi in bicicletta, in motorino, in auto, con megafoni per diffondere canzoni, jingle e slogan creati appositamente sul tema coronavirus. Tutto questo, sia nella capitale Bissau sia nei villaggi più isolati e remoti, dove la vita scorre lenta e immutabile. Ancora oggi molte regioni sono difficilmente raggiungibili a causa della mancanza di infrastrutture, ma anche perché il Paese è solcato da fiumi, canali, corsi d’acqua, laghetti e paludi.
Lingua franca
Si tratta spesso di luoghi di grande bellezza naturalistica e di antiche tradizioni conservate gelosamente. Questo vale, in particolare, per le isole Bijagos, al largo di Bissau, un vero e proprio paradiso terrestre, con ippopotami d’acqua salata e tartarughe marine verdi – e molti altri animali – che vi regnano indisturbati. Patrimonio dell’Unesco, sinora l’arcipelago è stato solo sfiorato dal turismo. Difficili da raggiungere con imbarcazioni spesso precarie e tempistiche totalmente inaffidabili, le Bijagos ripagano la fatica del viaggio con paesaggi inviolati di foresta lussureggiante e di spiagge immacolate e deserte: un piccolo assaggio di un mondo alle origini. Non solo: l’isolamento ha permesso alle popolazioni locali di conservare usi, costumi, tradizioni e lingua. Un patrimonio culturale preziosissimo.
Ma anche sulla terra ferma, se si va solo un poco più in là dell’immagine di un Paese povero e arretrato, non è difficile scoprire i tanti volti della Guinea-Bissau. Che sono innanzitutto i volti delle popolazioni che la abitano: dai Fulani ai Balanta, dai Mandinga ai Felupe e molti altri ancora, che per poter comunicare si sono “inventati” una lingua originalissima, il creolo, parlato da circa l’80 per cento della popolazione, mix di portoghese (che resta la lingua ufficiale, ma è conosciuta da pochi) e di lingue locali. Dallo scorso anno, una commissione di esperti sostenuti dall’Unesco – e di cui fa parte anche un missionario italiano, padre Luigi Scantamburlo del Pime, linguista e antropologo, che ha realizzato il primo dizionario creolo-portoghese – sta portando avanti un progetto affinché il creolo venga riconosciuto come idioma ufficiale, per rafforzare l’identità nazionale e promuovere la cultura locale.
(Anna Pozzi – foto di Bruno Zanzottera)
Questo articolo è uscito sul numero 4/2020. Per acquistare una copia della rivista, clicca qui, o visita l’e-shop.